lunedì 22 maggio 2023

L'uomo da spiaggia e i bug dell'apologetica

 


Forse sognavo, forse no.
La spiaggia era perfettamente levigata dal ripiego della marea, talmente lucida da specchiarsi nel cielo della sera.
Infatti, volgendomi indietro, vedevo la doppia fila delle mie orme, nitide come buchi in una conca di rame.
Ma forse non ero il primo a passare di lì, perché mi accorsi che un'altra serie di impronte, oltre la mia, mi procedeva accanto, nella mia stessa direzione. Sembrava che una presenza spettrale e invisibile mi accompagnasse.
Allora pensai: “Questo è Dio, il Dio che ha santificato la sua creatura, che si degna di camminare al mio fianco”.
Ma quella traccia non proseguì a lungo, percorsi pochi metri scomparve.
Allora sorrisi, forse della mia ingenuità, e pensai: “Ecco, qui è dove Dio mi ha lasciato solo”.
Ma una voce, forse in me forse fuori di me, replicò: “No: qui è dove io ti ho preso in braccio”.

Questa è la mia personalissima versione di una poesiola edificante, di autore incerto, che circola almeno dal XIX Secolo.
Occorre rilevare l'estrema elementarità del racconto.
Qui siamo a distanze siderali dai “Detti dei padri del deserto”, precipitati, invece, nell'industrializzazione dell'apoftegma. Il “prendere in braccio” è la banale controfigura dell'incarnazione, nell'interpretazione di una apologetica che potremmo semplificare così: gli umani si lamentano con Dio (“Eli, eli...”), e Dio fa: “Eccomi, soffro con te, anzi, soffro per te”.
La risposta, va da sé, è insoddisfacente. Su questo, Ivan Karamazov ha pronunciato parole definitive.
Ma torniamo al raccontino, che, nella sua candida banalità, ci offre spunti tutt'altro che scontati.

Le orme di chi?
Il protagonista del racconto, notando un'altra serie di impronte sulla sabbia, si accorge di non essere solo, come Robinson Crusoe si rende conto della presenza di un altro. Questo altro modifica la conformazione della sabbia, questo altro ha un corpo. Perché il protagonista pensi che si tratti di Dio, è un dettaglio legato alle convenzioni dell'apologetica. Notevole è la lievità dell'osservazione. Che gli dèi attici o norreni abbiano un corpo non ha nulla di straordinario: essi possono trasformarsi in animali, fiumi o piogge d'oro, ma non perdono mai la loro immanenza (quasi) creaturale; essi hanno una storia, nascono, crescono, a volte vengono fatti a pezzi (come Osiride o Zagreo)...
Il dio dei monoteismi, al contrario, non è nato, non si è sviluppato (lasciamo da parte le considerazioni junghiane), non è un avatar, si incarna non si reincarna, e se interagisce col mondo delle creature, lo fa semplicemente perché il mondo è parte di lui, ma la sua sede si situa al di là del tempo e dello spazio, e l'Empireo lo contiene e ne è contenuto (concetti non-euclidei che solo Dante, Dostoevskij e gli astrofisici comprendono), insomma: il concetto cristiano di incarnazione, tanto è inconcepibile, quanto è scandaloso.
Del resto, è possibile che, all'interno della logica del racconto, i pensieri e le deduzioni del protagonista siano semplici fantasie: egli vede le impronte e si finge di credere che siano una manifestazione sovrannaturale. Come abbiamo già detto, accettiamo la convenzione.
Fin qui, nessun inciampo.

Non si scappa da Ivan
Ma torniamo a noi, cioè all'everyman che procede sulla sabbia.
La sua reazione alla scomparsa della seconda serie di impronte, data l'ipotesi (seria o meno) che fossero le orme di Dio, è di piano buon senso: niente orme, niente più Dio.
La replica (“No: qui è dove io ti ho preso in braccio”), diciamolo, è assurda. Se fosse veritiera, sarebbero le orme del protagonista a svanire, non quelle di Dio. Ma questo è impraticabile, dato che il protagonista continua a premere fisicamente il piede sulla sabbia.
L'ipotesi che le tracce di Dio siano svanite perché Egli sia “entrato” nel protagonista (dopotutto la presa in braccio è una metafora), è inaccettabile: il dio dei monoteismi è già in eterno in ogni luogo e in ogni creatura. Non si può essere posseduti da Dio, Dio non è un Apollo qualsiasi.
Perciò, delle due l'una: o la voce che l'uomo da spiaggia ode dentro di sé è il frutto di una consolatoria autoillusione, oppure...
...Oppure quella voce non viene da Dio, ma dall'Avversario.

martedì 11 aprile 2023

Iolanta, ovvero Čaikovskij nel paese dei ciechi

La principessa Iolanta è cieca, ma non sa di esserlo.
Il re suo padre, per motivi politici, nasconde al mondo la condizione della figlia, e l'ha relegata in una specie di Eden recintato, un castello perduto tra i boschi, dove la fanciulla passa il suo tempo, circondata da uno stuolo di damigelle, tra musica e racconti. Nel suo seguito spicca Martha, classico esempio di njanja (nutrice), anche se non intrigante come quella di Giulietta o (peggio) o quella di Mirra.
Nell'opera di Čaikovskij, Iolanta non è un personaggio “potenziato” dalla cecità (alla Omero o Tiresia), e non manifesta neanche sensi sovrumani (alla Zatoichi o Daredevil). Appartiene piuttosto alla categoria delle fanciulle cieche angelicamente gentili e di buon cuore, come la fioraia di Luci della Città o la Alicia (nei Fantastici Quattro disegnati dal grandissimo Jack Kirby) che, lei sola, può “vedere” la bontà interiore del povero Ben Grimm, trasformato dai raggi cosmici nella grottesca Cosa.
Il cavaliere che “per caso” si introduce nel giardino recintato di Iolanta non si accorge, all'inizio, che la principessa è cieca, e utilizza tutta una serie di metafore visive (evidentemente proibite tra le damigelle del seguito) [traduzione dal libretto di Bernardo Paoli]:

Mi siete apparsa come una visione
di bellezza pura e celestiale,
come l'immagine di un sogno incantatore.
(…)
Ma vedo, voi non siete una visione...

Giustamente, Iolanta non capisce, ma avverte qualcosa di seducente nelle parole di lui (un po' come l'Elena di Goethe quando Faust le mostra l'inedita, per lei, bellezza della rima):

Parli in modo incomprensibile...
Non so... ma le tue parole mi suonano strane
e piacevoli, fanno girare la testa...

Quando il cavaliere si rende conto della situazione, si lascia andare a un'escandescenza di quello che oggi chiamerebbero ableism: non ti rendi conto di quello che perdi? E Iolanta, pur non essendo, ripetiamo, un Tiresia, trova comunque da ridire:

Si può forse vedere il fruscio
di un uccellino in un cespuglio di rose,
o il dolce mormorio
di un torrente impetuoso sulla sabbia?
Si può forse vedere il rombo del tuono,
o i trilli dell'usignolo,
o il profumo di un fiore,
la tua voce, le tue parole?

Bisogna riconoscere al cavaliere una certa profondità di sentimenti. Egli è subito pronto ad accettare la situazione, e ad amare Iolanta com'è che sia, cieca o non cieca (basta che sia, aggiungiamo noi, una gnocca siderale).
Ma il lieto fine incombe, dittatoriale. Il medicus musulmano ingaggiato dal re padre si dichiara pronto a ridare la vista alla principessa, purché lei lo voglia. La questione è tutt'altro che scontata: come si fa a desiderare qualcosa che non si può nemmeno concepire?
A tal riguardo basta rileggere il sublime racconto di H. G. Wells Nel Paese dei Ciechi (rielaborato nel serial See con Jason Momoa).
Il re va per le spicce, e minaccia di condannare a morte il cavaliere di cui la figlia (ormai si è capito) si è perdutamente innamorata. Iolanta accetta di sottoporsi alla cura del medicus (che avviene fuori scena, ma si suggerisce sia piuttosto estrema, probabilmente una terapia d'urto comportamentale).
La cura ha successo, anche se Iolanta deve adattarsi a un iniziale overload sensoriale, e tutto finisce a tarallucci e gasolio.
Quanto all'opera in sé, non ha nulla da invidiare all'Onegin o alla Dama di Picche. I dubbi dell'autore e i motivi per cui Iolanta sia stata “riscoperta” relativamente da poco, sono argomento per storici e filologi.
La musica che introduce la prima aria (l'arioso di Iolanta) è tra le più intense e struggenti che abbia mai udito, mentre, tanto per dire, il discorso del medicus merita di stare nel novero delle più grandi arie d'opera tout court.
Iolanta, insieme a capolavori come la Turandot di Puccini, il Boris Godunov di Musorgskij e il Mefistofele di Boito, tratteggiava un possibile profilo dell'opera nel XX Secolo. Le cose sono andate altrimenti.
Il mio disegno, forse, si prende qualche libertà di troppo. Ma in fondo i suonatori che periodicamente la intrattengono, lei non li ha mai visti, e mi sento autorizzato a pescarli da Bosch o da qualche tomo medievale.
Quanto agli occhi con le ali, voi che avete gli intelletti sani...
Considerazione finale: a fronte di Čaikovskij (e non solo di lui) mi considero un pidocchio (dostoevskianamente parlando), ma rispetto ai pidocchi (non dostoevskianamente parlando) che vorrebbero espungerlo dal repertorio mi sento un titano.
Dixi.