sabato 19 maggio 2018

Ultima Chtulhe

Prefazione a H. P. Lovecraft, Contro il Mondo, Contro la Vita
di Michel Houellebecq (Bompiani 2001)

Traduzione di Sergio Claudio Perroni

Necronomicon, 1979 (rifinito 2018)


Quando iniziai questo saggio (verso la fine del 1988), mi trovavo in una situazione identica a quella di decine di migliaia di lettori. Scoperti i racconti di Lovecraft all'età di sedici anni, mi ero immediatamente tuffato nella lettura di tutte le sue opere disponibili in francese. In seguito avevo esplorato, pur con passione declinante, sia i continuatori del mito di Cthulhu sia gli autori cui Lovecraft si era sentito vicino (Robert Howard, Dunsany, Clark Ashton Smith). Spesso tornavo comunque ai “grandi testi” di Lovecraft, che non cessavano di esercitare su di me un'attrazione strana e contraddittoria rispetto ai miei gusti letterari. Ma della sua vita continuavo a non sapere nulla.
Giudicando a posteriori, mi sembra di aver scritto questo libro come una specie di primo romanzo; un romanzo con un solo personaggio (lo stesso H.P. Lovecraft) e nel quale tutti i fatti riferiti e i testi citati sono autentici, nondimeno una specie di romanzo. Ricordo che la prima cosa che mi stupì quando scoprii Lovecraft fu il suo materialismo assoluto: contrariamente a molti suoi ammiratori, epigoni e studiosi, Lovecraft non ha mai considerato i suoi miti, le sue teogonie, le sue “antiche razze” altrimenti che come mero frutto dell'immaginazione.
L'altra grande fonte di stupore fu il carattere ossessivo del suo razzismo: leggendo le sue descrizioni di creature da incubo non avrei mai supposto che potessero avere radici in creature umane reali. Da cinquant’anni, l'analisi del razzismo in letteratura si concentra su Céline; ma il caso di Lovecraft è molto più interessante e significativo. Nei suoi testi le costruzioni intellettuali e le analisi sulla decadenza delle culture hanno un ruolo molto marginale. Autore di narrativa fantastica (uno dei massimi), Lovecraft riconduce brutalmente il razzismo alla sua origine essenziale, alla sua radice più profonda: la paura.
Sotto questo aspetto la sua stessa vita può servire da esempio. Da gentleman di provincia convinto della superiorità delle proprie origini anglosassoni, Lovecraft nutriva per le altre razze un disprezzo tanto vago quanto distante. Ma il suo atteggiamento mutò radicalmente in occasione del soggiorno a New York, quando scoprì nello straniero un concorrente, un nemico incombente, un rivale che, con ogni probabilità, gli era superiore nel campo della forza bruta. Ecco allora il suo disprezzo trasformarsi dapprima in paura e poi in quel crescente delirio di masochismo e terrore che lo spinse più volte ad auspicare lo sterminio delle creature aliene.
A parte questo, l'indifferenza di Lovecraft nei confronti della realtà è totale. È raro trovare un altro autore - anche tra quelli più radicati nella letteratura dell'immaginario che abbia fatto così poche concessioni alla realtà. Come scrittore, personalmente non ho seguito Lovecraft né nella sua insofferenza verso qualsiasi forma di realismo né nel suo accanito rifiuto di ogni argomento basato sul sesso o sul denaro; tuttavia credo di aver messo a profitto quello che allora definivo il suo aver “fatto esplodere l'impostazione del racconto tradizionale” tramite l'utilizzo sistematico di termini e concetti scientifici. E comunque non ho mai smesso di trovare straordinaria la sua originalità. All'epoca scrivevo che in Lovecraft c'era qualcosa di “non esattamente letterario”, e questa sensazione mi è stata confermata nel corso degli anni dal ricorrere di una strana circostanza. Durante gli incontri con i lettori dei miei libri vengo spesso avvicinato da ragazzi che mi chiedono di firmargli una copia di questo saggio. Sono ragazzi che hanno scoperto Lovecraft tramite i giochi di ruolo e í CDRom: non l'hanno mai letto e non hanno intenzione di farlo; tuttavia, stranamente, desiderano sapere - al di là dell'opera - qualcosa di più sull'individuo e sul suo modo di costruire il proprio mondo. Questo straordinario potere di creatore di universi e questa potenza visionaria devono avermi talmente impressionato, all'epoca, da impedirmi - ed è il mio unico rimpianto - di rendere sufficientemente omaggio allo stile di Lovecraft. La sua scrittura, infatti, non si sviluppa solo nell'ipertrofia e nel delirio: nella sua prosa troviamo spesso una delicatezza e una sorta di luminosa profondità decisamente rare. Mi riferisco in particolare al caso di Colui che Sussurrava nelle Tenebre, racconto che citavo solo di sfuggita, e nel quale si trovano brani come questo:

Tra l'altro, nel paesaggio ipnotico in cui continuavamo a sprofondare e affiorare come in un mare fatato, c'era un elemento di bellezza cosmica stranamente rasserenante. Il tempo si era smarrito nei labirinti che ci eravamo lasciati alle spalle, e intorno a noi si dispiegavano solo le onde incessanti di uno scenario fiabesco e la resuscitata leggiadria di secoli estinti - boschi arcadici, pascoli intonsi guarniti di rutilanti fiori autunnali, e, in lontananza, minuscole fattorie accovacciate tra alberi enormi ai piedi di rupi scoscese ricoperte di erica ed erba fienarola. Persino il sole aveva un fulgore sovrannaturale, come se l'intera regione fosse immersa in un'atmosfera o in un effluvio del tutto particolari. Non avevo mai visto nulla di simile, salvo nelle prospettive magiche che talvolta fanno da sfondo alle composizioni dei primitivi italiani. Sodoma e Leonardo concepirono simili vedute, però solo in lontananza e incorniciate dagli archi di qualche porticato rinascimentale. Noi invece stavamo penetrando fisicamente all'interno del dipinto, e nella sua magia mi pareva di ritrovare qualcosa che, pur radicata in me come retaggio innato o acquisito, avevo sempre cercato invano.

Qui ci troviamo in un passaggio dove l'estrema intensità della percezione sensoriale rischia di provocare un sovvertimento della percezione filosofica del mondo; in altre parole, ci troviamo nella poesia.

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