martedì 21 gennaio 2020

De-composizione


di Jean Clair
(da De Immundo, Abscondita 2016, pagg. 11, 17-18)


A un primo colpo d'occhio sulla riproduzione, così come la si trova in un libro dedicato all'opera di questo artista, si esita a comprendere. O meglio, forse si è già capito, ma ci si rifiuta di accettare ciò che l'occhio ha appena visto. È un volto. Interamente coperto da una materia giallastra che non lascia alcun dubbio sulla sua natura. La testa dell'uomo che ha posato per l'opera è sepolta sotto una colata fecale, un impiastro escrementizio. Non è la maschera di bellezza, verde e viscosa, che nei rotocalchi femminili si vede ricoprire il volto delle donne alla ricerca dell'eterna bellezza, è una maschera d'infamia che suscita in noi l'orrore. Il principio capitale del corpo umano è diventato anus mundi. Il volto è diventato una cloaca. È quello che scopre Dante, nel canto XVIII dell'Inferno, quando entra nella bolgia degli adulatori. Il gioco delle maschere era stato uno dei più gradevoli che l'arte della pittura ci avesse offerto. Maschere piacevolmente colorate degli eleganti che rappresentavano la tromperie nel XVII secolo, piccole maschere nere di Pietro Longhi, grandi maschere bianche, già più inquietanti, dei Pulcinella di Giandomenico Tiepolo. Non eludevano il faccia a faccia, l'incontro di sé e dell'altro. Nel gioco degli equivoci, lasciavano passare il soffio della vita. Ma qui? In questa maschera fecale che ricopre il volto e che soffoca chi la porta, di quale faccia a faccia infernale si tratta? «Qui non ha luogo il Santo Volto»: è a questo verso di Dante, per seguire ancora la nostra guida, è a esso che pensa Primo Levi quando varca le porte di Auschwitz. Qui, lo capirà immediatamente, si è nel luogo in cui gli uomini sono considerati Dreck, pezzi di merda, come dicevano i nazisti.
(...)
L'opera (...) è intitolata Autoportraits. È un fatto, e bisogna misurarsi con il fatto. L'autore si chiama David Nebreda. È nato a Madrid nel 1954. Le sue fotografie sono state esposte in alcune gallerie di avanguardia. Per lo più egli si rappresenta a figura intera, di prospetto, o di profilo. Quasi sempre nudo, e senza involucro cloacale, appare cachettíco, più magro dei prigionieri che gli americani hanno fotografato quando hanno liberato Dachau e Buchenwald.
Su una delle foto si vede in primo piano, in sovrimpressione, un flacone di aloperidolo, il liquido verde fluorescente come anice o assenzio. Nebreda è stato ricoverato in ospedale più volte, spesso per lunghi perio-di, con una diagnosi, senza dubbio molto indefinita, di schizofrenia paranoica. Come Daniel Paul Schreber, per intenderci.
La maggior parte delle fotografie mostra tracce di automutilazioni, fatte con il rasoio, con il coltello, con le forbici, bruciature di sigaretta, lacerazioni provocate con fruste chiodate. Alcune «messe in scena», talvolta degli aloni luminosi, dei nimbi, fanno chiaramente pensare a estasi religiose, nella tradizione dell'arte spagnola. L'artista non si è accontentato dello «stile» tutto nudo, ma ha sentito il bisogno di lumeggiature, di ritocchi, di correzioni... L'informe messo in forma. Il solo materiale che egli utilizza, dice, nel fare queste foto a colori è la cenere, e anche tre tipi di materiale organico: sangue, urina, escrementi solidi.
L'uomo è intelligente, colto. Si esprime in modo ricercato. Sembra avere una chiara consapevolezza di ciò che significa il suo procedimento.


Come rendere comprensibili le sensazioni che il mio sangue e i miei escrementi producono in me? Sentimenti primari di riconoscimento, di pienezza, di gioia, di tenerezza, di remota identificazione, di amore. Li ho presi e conservati; li ho toccati, manipolati, con essi ho ricoperto il mio volto e il mio corpo. Me li sono introdotti in bocca e li ho custoditi segretamente fino al giorno del mio sacrificio...(David Nebreda, Autoportraits, Éditions Léo Scheer, Paris 2000, pag. 163)

«Riconoscimento», «gioia », «tenerezza », «identificazione»: siamo qui nel registro dell'amore materno e nel tempo dei primi istanti della vita, quando toccare, sentire, gustare i propri escrementi, significava porre i primi limiti tra il corpo e ciò che non è il mio corpo. Ma qui la separazione, il dono non hanno luogo. Niente è donato alla madre. Tutto è conservato per sé. «Fino al giorno del mio sacrificio ». Quale sacrificio? Per quale dio terribile e lontano? Narcisismo primario. Ritenzione. Regressione. Le parole non hanno importanza.


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