di Domenico D'Amico
Neurone di Purkinje evidenziato dal giallo Lucifero |
La Commedia di Dante è un testo estremamente tendenzioso.
Il fatto che il poeta argomenti instancabilmente a favore delle sue tesi (teologiche ed etiche certo, ma soprattutto politiche) è tutt'altro che sorprendente. La Commedia, infatti, per quanto immensamente superiore, sia per struttura sia per contenuto, a opere consimili, rientra comunque nel canone della apologetica, soave etichetta filosofico-spirituale per una pratica che potrebbe denominarsi con un appellativo molto meno altisonante: propaganda.
Questo non disturba affatto il lettore contemporaneo (ci importa assai del potere temporale dei papi, del mondo cristiano in ambascia e dell'Impero in eclissi!), ma ha come effetto collaterale qualche frustrante interrogativo.
Possibile che Dante, tra gli innumerevoli milioni di defunti che già (ai tempi suoi) affollavano l'aldilà, non faccia altro che imbattersi (soprattutto all'Inferno) in ombre di italiani ad alto dosaggio di toscani, e per di più gente che ha conosciuto di persona? E che molti, volenti o nolenti, non facciano che portare acqua alle tesi etico-politico-teologiche del poeta? Cos'è, questa, una sorta di vertiginosa, biblica, totalizzante “licenza poetica”?
Un reality con VIP all'Inferno?
Una domanda del genere, da un punto vista critico, sarebbe scorretta.
Ogni oggetto artistico sottostà a specifiche convenzioni (quando non le sfida o le mette tra parentesi), prescindendo dalle quali esso diventerebbe inattingibile e incomprensibile: il fatto che, nel teatro musicale, due mortali nemici si mettano a duettare in perfetta armonia, non è affatto inverosimile. La verosimiglianza è un risultato (della sapienza narrativa di chi racconta), non un contenuto.
Se guardiamo ai “precursori” letterari della Commedia (attenendoci ai classici 5: la Visio Pauli, il Viaggio di S. Brandano, la Visio Tnugdali, il Purgatorio di S. Patrizio, e la Visio Alberici) noteremo che si tratta, letteralmente, di visioni estatiche, cioè di esperienze prevalentemente extra-corporee (fa eccezione il viaggio per nave di San Brandano, che, guarda caso, evita di approdare fisicamente all'Inferno), mentre il fatto che Dante percorra con tutte l'ossa sue e le polpe il mondo dei morti assume nella Commedia un rilievo primario quanto inedito.
Volendo fare un paragone, è come accostare la lanterna magica di una wunderkammer a un film con effetti digitali.
[Tra parentesi, le ombre dei morti non proiettano ombra, per cui detti morti si stupiscono dell'ombra proiettata da Dante, che si presenta come un Peter Schlemihl al contrario (non è l'assenza ma la presenza di ombra a renderlo unico), ma mentre il personaggio di Chamisso è un monstrum inquietante, da emarginare, Dante è un monstrum attraente, da ingraziarsi, perché può garantire suffragi alle anime del Purgatorio]
Anche nelle opere di cui più sopra i “visionari” incontrano personaggi storici o leggendari, ma la vivacità della rappresentazione dantesca (e la sua martellante coerenza ideologica) rende quelle apparizioni molto più impressionanti, tanto da suscitare il sospetto che a volte, sotto il messaggio politico-religioso, affiori un compiaciuto spirito di vendetta personale (vedi il violento sketch con Filippo Argenti o l'aggressione fisica, da parte di Dante, nei confronti di Bocca).
Dato che la convenzione fondamentale della Commedia, quella in cui noi, rievocandola dal nulla nell'atto di leggerla, siamo tenuti a fingere di credere, consiste nel suo pretendere di essere la cronaca di un viaggio realmente e storicamente vissuto dal poeta-pellegrino, ebbene, simili dubbi rischiano di infrangere l'incantesimo della suspension of disbelief.
In questa prospettiva, in realtà, i problemi sono ben maggiori di quelli già citati.
Lingua in pungenti salse
Che lingua si parla all'Inferno (anzi, in generale, nei tre regni dei morti)?
Se Dante non avesse lui per primo attirato l'attenzione su questo punto, ci limiteremmo a leggere la Commedia come se fosse un film doppiato in italiano (o meglio, in “volgare di sì”), sorvolando sulle eventuali incongruenze.
Il fatto è che il poeta stesso accenna continuamente alla lingua (o all'inflessione) che i personaggi della sua storia utilizzano. Finché un toscano (Dante) parla con un altro toscano (ad esempio Farinata), niente da dire. Ma come si capiscono, sin dall'inizio del poema, un fiorentino del 1300 e un cittadino romano morto nel 19 Avanti Cristo? Peggio ancora, nell'episodio di Ulisse (Inferno XXVI) Virgilio, cittadino romano, parla con Ulisse, greco dell'età del Bronzo, in dialetto lombardo (“Istra ten va, più non t'adizzo”)! E l'episodio di cui più sotto, con maestro Adamo che è inglese e Sinone che è un altro greco andato alla conquista di Troia? E in Paradiso, San Pietro non parlerà in aramaico, lingua di certo ignota a Dante?
La soluzione di Giorgio Inglese è questa:
(…) gli spiriti d'oltre-tomba si esprimono ciascuno nella propria lingua (V[irgilio] in lombardo, Ulisse in greco, Stazio in lingua d'oc?, e così via), e sono comunque intesi dagli altri spiriti e dal P[oeta]: questi poi, fattosi narratore, riporta il loro dire nella lingua del poema (come che essa possa definirsi), con qualche eccezionale e motivata coloritura nazionale.
(Dante Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Carocci, pag.320)
È una spiegazione che non fa una piega, ma che suscita un dubbio collaterale: che lingua parlano i diavoli? La lingua di cui abbiamo un saggio col versaccio di Pluto (Pape Satàn, pape Satàn aleppe)? I loro nomi, però, sembrano proprio in italiano (Barbariccia, Calcabrina, Draghignazzo, eccetera). O forse quella che Dante ci offre è la traduzione in volgare da un originale in “lingua infernale”?
Call Me Crocifissa |
Si dirà: il diavolo parla tutte le lingue, come il Satana del Maestro e Margherita. D'accordo, ma, a parte il fatto che i diavoli danteschi non sono raffinati cosmopoliti che discutono di filosofia con Kant, ma beceri tirapiedi che spernacchiano e spetazzano (in confronto a loro, l'Azazello di Bulgakov è un gentleman), essendo stati creati prima degli esseri umani sarebbe logico che possedessero una lingua propria, ché di certo avrebbero schifato quelle umane, edeniche, adamitiche o pre- che fossero (e a questo riguardo, è lo stesso Adamo, in Paradiso XXVI, a informarci che la lingua da lui parlata “fu tutta spenta” prima del fattaccio della Torre di Babele). Idem per l'alchimistico linguaggio degli uccelli, altro prodotto delle scimmie spelacchiate.
E se pensate all'enochiano di John Dee, si tratta di un linguaggio riservato agli angeli, di sicuro interdetto ai caduti.
E qui ritorniamo al Pape Satàn, ma ci fermiamo, anche perché sto perdendo il filo (Cthulhu fhtagn!).
Questo è il mio corpo, giù le mani!
Ulteriore “problema” dantesco (anzi, probabilmente “il” problema) è quello della consistenza fisica delle ombre dei morti nell'aldilà, che si pone nel momento in cui interagiscono con la carne viva del poeta-pellegrino.
Come si sa, a volte questi defunti hanno la consistenza di un ologramma, non solo nell'interazione tra il vivo e i morti (come accade a Dante quando, memore del precedente virgiliano, cerca invano di abbracciare l'amico Casella in Purgatorio), ma tra le stesse ombre dell'oltremondo (Stazio che si scusa di aver cercato di abbracciare Virgilio: «Or puoi la quantitate / comprender de l’amor ch’a te mi scalda, / quand’io dismento nostra vanitate, / trattando l’ombre come cosa salda» - Purgatorio XXI, 133-136); ma prevalente è l'impatto fisico tra le due realtà. Non si contano le volte che Virgilio, sostiene, spinge, o addirittura prende in braccio Dante; lo fa anche Santa Lucia, e da parte sua Matelda risciacqua Dante nel fiume Lete con la disinvoltura di una lavandaia danzante.
Immagino la scena con un'impostazione alla Dante Gabriele Rossetti: fanciulle aggraziate e spirituali che si palleggiano il corpo di un uomo adulto come un sacco di patate (di quelli da due chili, di patate piccole da forno).
Il povero Stazio si scusava di aver dimenticato che le ombre dei morti non hanno consistenza, ma in precedenza Virgilio si era lasciato abbracciare da Sordello terque e quaterque senza fare storie.
E questo è nulla, di fronte al fatto, rievocato più sopra, della violenza fisica che Dante esercita nei confronti di un'anima dell'Inferno: il poeta strappa intere ciocche di capelli al traditore Bocca degli Abati, allo scopo di fargli dire chi è. Enhanced interrogation nel Cocito, Dante ad Abu Ghraib.
E via e via.
Ma anche per questo “problema”, come per le lingue che si parlano nell'aldilà, la soluzione non risiede in un'ipotetica e semplicistica “incoerenza poetica” di Dante.
Mens vana in corpore vili
Una delle peggiori sventure vissute dalla cultura cristiana (occidentale) è derivata dall'imperversare di una aspirazione ascetica che contrapponeva con la massima brutalità corpo e anima. Come racconta mirabilmente Jean Delumeau (Il Peccato e la Paura. L'idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino 1987), l'idea che l'anima sia prigioniera del corpo, che il corpo, la creaturalità siano irrimediabilmente corrotti, è in contraddizione totale col nucleo fondamentale del messaggio cristiano, che è l'Incarnazione e, di conseguenza, il riscatto e la redenzione della carne, col corollario della sua resurrezione finale, configurata da quella del Cristo.
La negatività della materia, orfica, gnostica, agostiniana eccetera (vedi le vette del Contemptus Mundi) finisce per pronunciare, magari in forma interrogativa, la sentenza di fallimento della redenzione.
«Quae utilitas in sanguine meo?» si chiede Gesù (Salmo 30, 29 nella Vulgata), insomma, chi me lo ha fatto fare? In questa prospettiva nichilisticamente pessimistica, un Dio misericordioso può trasformarsi in un Dio più che spietato, un Deus ridens:
Dominus irridebit eos. Ah intollerabile spasimo! Peccai di troppa credenza quando io pensai che il tormento di miserabili condannati fosse il vedere la faccia del sommo Dio sdegnato, ma riconobbi più aspro il rimirare la bocca del grande Iddio che ride.
(Padre Angelo Maria da San Filippo, Quaresimale, cit. in Piero Camporesi, La Casa dell'Eternità, Garzanti 1987)
Dante è totalmente estraneo a questa concezione anti-carnale.
Egli privilegia la vita contemplativa sopra quella attiva, ma non le contrappone manicheisticamente. La temperanza di natura stoica a cui dovrebbero attenersi le persone virtuose non comporta una condanna assoluta dei sensi, che anzi sono una caratteristica del tutto naturale (e di base positiva) degli esseri senzienti. I sensi vanno tenuti sotto controllo non per mortificarli, ma per essere pienamente umani, evitando di ritrovarsi all'Inferno tra quelli “che la ragion sommettono al talento”.
In breve: il male non è nei piaceri della carne, ma nel permetter loro di prendere il comando.
La prova regina di tutto ciò è nel rapporto tra anima e corpo come la concepisce (per lo più aristotelicamente) Dante.
L'anima umana, per quanto radicalmente diversa dal corpo materiale (che è una creazione “secondaria”, mentre l'anima individuale viene creata direttamente da Dio), non è affatto un ghost in the machine, ma si sviluppa e modella in sintonia e in simbiosi con la carne (cfr. Enciclopedia Dantesca s.v. Ombra).
I morti danteschi non sono per nulla spiriti liberatisi dalla prigione del corpo, ma esseri incompleti che attendono impazienti e nostalgici il giorno in cui potranno riunirsi con un corpo gloriosamente resurretto.
Negarlo comporterebbe rinnegare l'Incarnazione.
È questa conformazione dell'anima che fa sì che gli spiriti dei morti formino all'altro mondo una sorta di pseudo-corpo (quello che Dante chiama ombra), veicolo di ogni sorta di sensazione quasi-fisica.
Certo, il fuoco e il ghiaccio oltremondani hanno la medesima qualità “trasumanata”: il fuoco dell'Inferno (e del Purgatorio), ad esempio, brucia e fa soffrire le ombre, ma non le consuma. Dante stesso, in Purgatorio, sperimenta l'intollerabile calore del fuoco che purifica i lussuriosi, e lo sente spiritualmente e fisicamente. Che la sua carne sopravviva a un luogo palesemente incompatibile con la vita organica è tutt'uno con la grazia particolare accordatagli da Dio per compiere la sua missione (viaggiare nell'altro mondo e raccontarlo a edificazione di tutti).
È quindi naturale che, nel girone dei sodomiti, il pellegrino eviti di affiancare Brunetto Latini, per evitare di restare ustionato dalle falde di fuoco, ed è normale che si senta intorpidire le guance dal vento che congela il Cocito (un posto dove le lacrime dei dannati si congelano all'istante, roba da venti-trenta gradi sottozero – cfr. Farsi un Fuoco di Jack London).
Ma perché le differenze? Perché le ombre a volte sono solide a volte diafane? Perché l'ambiente esterno interagisce con il pellegrino in modi così diversi (sempre riguardo il Cocito, perché Dante non soffre del gelo come soffre del calore purgatoriale?)
Dovremmo ripensarci, e concludere che la commedia, più che “romanzo”, sia una “visione”?
Primae Visiones
No, quella di Dante non è una visione, malgrado i tantissimi elementi in comune con le opere citate più sopra. Lo stesso poeta ne è consapevole, dato che all'interno della narrazione è l'avatar-pellegrino di Dante a vivere più di una visione estatica (per l'esattezza, tre sogni simbolico-profetici: Purgatorio IX, XIX, XXVII).
Avremmo una visione nella visione, altro che teatro nel teatro!
Avremmo una visione nella visione, altro che teatro nel teatro!
[Oltretutto, il modulo narrativo del personaggio che si ritrova sulla soglia della morte e sperimenta una visione rivelatrice, come accade nella Visio Tnugdali, è oggi usatissima nello spettacolo audiovisivo]
Ma perfino il paragone con l'archetipo occidentale di tutte le fantasmagorie misticheggianti, l'Apocalisse di Giovanni, sarebbe fuorviante. Dante la cita, la imita, la ricanta, ma solo come elemento tra gli altri della sua unica, colossale foresta verbale.
[La sequenza in cui i richiami all'Apocalisse sono particolarmente vistosi è quella della cosiddetta “processione mistica” cui Dante assiste nel Paradiso Terrestre.
Ma di questo, più oltre.]
VOGLIAMO VENIRE AL DUNQUE?
Teatro di regia, cos'altro?
Tutti questi “problemi” avrebbero potuto rimanere avviluppati dai miasmi dolciastri dell'esegesi critica (para- meta- de che?) per tutti i secoli dei secoli, se non fosse stato per Dante, che ci ha spiegato, in maniera esplicita e nient'affatto occulta o anagogica, perché l'altro mondo raccontato nella Commedia è fisicamente quello che è.
La risposta è semplicissima.
Dio ha concesso a Dante il privilegio di viaggiare per i tre regni della morta gente, con il fine preciso che egli ne dia un resoconto profetico ed edificante. Dante, in un certo senso, si è guadagnato l'incarico perché è un grande artista, e lui non fa finta di non saperlo.
Però c'è un problema.
L'altro mondo non è roba da persone in carne e ossa. È materiale e spirituale a un tempo, e sia la sua materialità, sia la sua spiritualità sono incompatibili con l'omeostasi degli organismi viventi. Lì si è fuori dal tempo mortale, dallo spazio-tempo fisico (“dove Dio sanza mezzo governa, / la legge natural nulla rileva”).
L'inevitabile distruzione della nave di Ulisse in vista della montagna del Purgatorio imita l'inammissibile e annichilente contatto tra materia e antimateria.
Non solo.
L'altro mondo, in quanto altro, non sarebbe descrivibile, discernibile, alla fin fine percepibile da una mente appartenente al mondo fisico.
Dio, ovviamente, lo sa, e interviene in prima persona, come “artefice” e “fabbro”, per fornire a Dante un'esperienza, per quanto possibile, comunicabile, “raccontabile”.
È in Paradiso che, per la prima volta in maniera esplicita, per bocca di Beatrice, Dante viene a sapere che la sua esperienza sensibile dell'oltremondo è una rappresentazione che Dio ha messo in atto a beneficio della missione poetico-profetica del pellegrino:
Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestïal c'ha men salita.
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d'intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;
(Paradiso IV,37-45)
Gli viene anche spiegato che i beati gli vengono mostrati non come sono (nell'eternità fuori dal tempo), ma come saranno dopo la riunificazione coi loro corpi:
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia.
(Paradiso XXX, 43-45)
E non si tratta solo del Paradiso, il più arduo da descrivere e mantenere nella memoria, come dice il poeta all'inizio della cantica,
Nel ciel, che più de la sua luce prende,
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché, appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
(I, 4-9)
e alla fine,
Qual è colui che somniando vede,
che dopo il sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
(XXXIII, 58-60)
Norman Bel Geddes, bozzetto per la produzione della Divina Commedia di Dante Alighieri, 1921 |
Id. Ricostruzione digitale |
Come apprendiamo dalle parole di Cacciaguida, la “messa in scena” che genera la chiave di lettura dell'esperienza oltremondana di Dante, opera anche all'Inferno. Ricordate lo sgraziato interrogativo: ma come mai Dante incontra tanti personaggi, famosi o meno, di sua conoscenza, cosa statisticamente improbabile?
La risposta, a questo punto, è ovvia:
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia».
(Paradiso XVII, 136-142)
Per questo motivo ti sono stati mostrati nei cieli del Paradiso,
nel Purgatorio ed in quella valle di dolore che è l’Inferno,
solo le anime di persone che sono state molto famose in vita,
perché l’animo di chi ascolta non si sofferma
né presta fede ad un esempio che gli sia
totalmente sconosciuto ed oscuro,
né ad un argomento di scarsa notorietà e fama.
Oltretutto, parlando con il suo antenato Dante si pone quello che potremmo chiamare un problema “editoriale”.
Se Dante avesse scritto la Commedia oggi, sarebbe stato colpito da una gragnuola di cause per diffamazione.
Dante: Già adesso so che nel resoconto del mio viaggio nei regni dei morti dirò peste e corna di molti, notabili o meno che siano stati. Dovrei forse moderare il tono delle mie note?
Dio: (tramite Cacciaguida): Non ti preoccupare. Scrivi quello che devi. Ti autorizzo Io.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
(Paradiso, XVII, 127-129)
Insomma, senza pretendere di essere conclusivi, potremmo dire che le oscillazioni (ad esempio) della corporeità oltremondana sono collegate alla natura “psicosomatica” delle ombre, ma “dirette” (all'interno della finzione) dal regista dietro le quinte.
Tutto (l'altro) mondo è teatro
Onestamente bisogna notare che Dio, come metteur en scène, è di un'ecletticità straordinaria.
Non solo predispone tema e canovaccio, ma addirittura produce di sua mano parte della scenografia (ad esempio gli altorilievi del Purgatorio, scolpiti nel marmo ma animati e sonori e olezzanti come gif animati trascendentali), fa da kappellmeister per i cori dei purganti (cantus firmus o meno) e da coreografo per le vertiginose folies rotatorie (o cruciformi) delle anime-luci del Paradiso!
Ed è anche impresario, costruttore e proprietario: l'imbuto dell'Inferno non è forse il più scosceso degli anfiteatri? Ha a disposizione milioni di primi attori (e attrici), miliardi di comparse! Può utilizzare le stelle come luci della ribalta, il sole e i pianeti come oggetti di scena! È il teatrante scavalcamontagne definitivo, perché la sua tournée tocca tutto l'universo e le repliche non avranno mai fine (tranne che quelle ambientate in Purgatorio, che dopo il Giudizio Finale verrà convertito in agriturismo)!
Per forza lo spettacolo è solo a invito: il biglietto, chi se lo potrebbe permettere?
Tornando alla fattispecie scenica, il Padreterno domina ogni sorta di registro.
Nell'Inferno passa disinvoltamente dal dramma storico (Farinata) alla commedia dell'arte (i malebranche) e all'avanspettacolo (maestro Adamo e Sinone).
[In quest'ultimo caso, Dante ci mostra anche il primo esempio moderno di critica teatrale militante.
Nell'episodio (Inferno XXX) viene riutilizzato in chiave scenica il modello della tenzone poetica (nel modulo affine del contrasto, nel quale Shakespeare si rivelerà maestro), e gli strumenti metanarrativi ci sono tutti: maestro Adamo e Sinone, gli attori; Dante, lo spettatore incantato dal susseguirsi di battute feroci; Virgilio, il critico teatrale-ideologo (secondo il quale, evidentemente, l'arte non deve semplicemente intrattenere, ma educare, anzi, edificare) che rimbrotta lo spettatore Dante, dato “ché voler ciò udire è bassa voglia”]
In Paradiso, il Sommo Regista si butta decisamente sul cinematografico, precipitando da Georges Méliès a Stanley Kubrick, per approdare a un puro astrattismo bioluminescente.
Il teatro nel teatro no, abbiate pietà!
Lo so, lo so, ormai anch'io, se odo l'espressione “teatro nel teatro” (o simili, tipo “metanarrativa”) porto la mano alla pistola.
Non la trovo.
Così metto mano al batticarne (quello a martello: per battere la carne è pessimo, ma per infliggere lesioni gravi è il massimo).
Non la trovo.
Così metto mano al batticarne (quello a martello: per battere la carne è pessimo, ma per infliggere lesioni gravi è il massimo).
Ma ai tempi dell'Amleto e del Sogno di una Notte di Mezza Estate di Shakespeare era una gran trovata.
Figuratevi nel 1300!
Stiamo parlando del massimo evento teatrale descritto nella Commedia.
Resa della processione mistica da parte di William Blake |
Stiamo parlando del massimo evento teatrale descritto nella Commedia.
Eccoci arrivati, in compagnia di Dante, Virgilio e Stazio, sulla vetta della montagna del Purgatorio. Sorpresa: in cima al secondo regno dei morti c'è l'Eden, il Paradiso Terrestre irrimediabilmente perduto a causa di certune iniziative da parte di Adamo ed Eva, iniziative sgradite al Padrone di Casa.
È qui che viene messa in scena (alla lettera) quella che comunemente viene chiamata “processione mistica” (vedi Enciclopedia Dantesca, sub voce)
Bisogna considerare che i modelli più vicini a questa processione allegorica appartengono al futuro (Brunelleschi coi suoi angeli volanti) piuttosto che al passato (la solita Apocalisse).
Colossali candelabri che emettono una luce lunare che stria l'aria di fasce iridescenti, figuranti in vesti di un bianco sfolgorante, i quattro animali dell'Apocalisse, colle ali costellate di occhi, uno smisurato carro mutaforma, trainato da un grifone dai colori indescrivibili, bellissime donne che danzano, angeli volanti (eh, già), aquile, volpi, draghi, schianti, metamorfosi (e anche un fulminante sketch sadomaso tra un gigante e una "puttana sciolta")!
Miniatura dalla Divina Commedia di Alfonso d'Aragona |
Storyboard botticelliano |
Tuttavia, paragonare lo spettacolo descritto da Dante alle moralities meglio attrezzate, oppure al più immaginifico masque di Inigo Jones, o anche al più fantasmagorico carro di Rio (vedi sotto), sarebbe davvero meschino.
Bella forza, se Dio vuole un drago o un grifone per la sua pièce, mica li deve progettare e assemblare, li crea lì per lì, vivi di una vita più viva della Vita.
To', un'aguglia! |
Tra parentesi, ricordiamo che l'idea di un personaggio che rappresenti allegoricamente tutti gli umani ricollega le moralities a Joyce, dato che anche il Bloom dell'Ulisse è, a tutti gli effetti, un Everyman. E ricordando come il pellegrino della Commedia, oltre ad essere un avatar del poeta Dante, è anche un rappresentante, una specie di messo diplomatico del genere umano, quindi anch'esso un Everyman, e questo ci riconduce a Joyce che, come abbiamo osservato altrove, se formalmente segue Omero, artisticamente aspira a Dante.
[Esiste un sinistro collegamento tra spettacolo sacro e male assoluto: Gilles de Rais, il mostro uccisore di bambini ispiratore della leggenda di Barbablù, spendeva cifre enormi per finanziare tali rappresentazioni, che lo infiammavano di una commozione quasi equivalente a quella che provava nell'uccidere (cfr. Michel Tournier, Gilles e Jeanne, Garzanti 1986)]
Scenotecnica trascendentale
Significativamente, la biologia cede il posto alla meccanica se ripensiamo alla scenografia del fondo del fondo dell'Inferno, centro della Terra e centro dell'Universo, trono-trappola di Lucifero.
Mentre i funzionari dell'Ade (Caronte, Minosse, Cerbero, eccetera) manifestano contenuti emotivi (più o meno bestiali), Lucifero è totalmente opaco, insensibile e assente.
Dante, all'inizio, lo scambia per un “dificio”, una specie di mulino a vento. E lo è: le sue enormi ali di pipistrello generano i venti che congelano il Cocito, ma queste ali si muovono in maniera cronometrica, meccanicamente periodica (Virgilio, a suo tempo, ne approfitterà per scansarle nell'atto di guadagnare l'uscita), e altrettanto meccanico sembra il ruolo di tritatutto (o trita-traditori) delle mandibole dell'angelo caduto.
La stessa bava sanguinolenta che cola dai ceffi del re dell'Inferno non ha nulla di fisiologico, ma richiama piuttosto il gel lubrificante della ganascia retrattile dell'alien di Rambaldi. Come succede con i Grandi Antichi di Lovecraft, non ci troviamo di fronte a un orrore bestiale, ma allo straniamento dell'inorganico.
Lucifero è una colossale macchina teatrale, anch'essa, come la processione edenica, da far invidia uno spettacolo di Inigo Jones: è il tetro animatronic di un parco a tema dove nessuno è turista (tranne Dante), e chi vi giunge viene incorporato come attrazione.
Precisazione
Quella teatrale (fin qui usata) è una metafora.
Prendendola alla lettera, sarebbe arduo precisare il genere teatrale a cui associare la Commedia. Si tratterebbe di una messa in scena diretta a un singolo spettatore, un po' come un masque o un dramma di corte che si rivolgevano (virtualmente) unicamente al sovrano? No, perché nella Commedia Dante non è nemmeno lontanamente fruitore di un racconto ideato e intessuto da altri, ma è (strato su strato narrativo e metanarrativo) autore, narratore e protagonista della narrazione. Piuttosto, l'allestimento oltremondano organizzato da Dio a beneficio di Dante ha tutte le caratteristiche di un'elaboratissima cospirazione, simile a quelle di cui sono vittime, ad esempio, i nemici di Montecristo o il puerile Calandrino di Boccaccio; oppure una realtà ricostruita in cui si ritrovano immersi molti personaggi di Philip Dick, o anche, nel caso del Chisciotte vittima della burla dei duchi, un colossale scherzo (vedi anche The Game di David Fincher)...
Ma nemmeno questo è il caso, perché nella prospettiva culturale di Dante l'accomodamento dell'aldilà operato da Dio (con lo scopo di rendere, almeno parzialmente, comunicabili cose altrimenti indicibili) non scalfisce minimamente il carattere di Verità del racconto, perché il Vero è caratteristica della dimensione divina, mentre il reale, il materiale, sono solo ombra del Vero.
In sintesi: Dante sa che la sua esperienza oltremondana è artificiale, ma essendo Dio l'autore dell'artefatto, l'invenzione diviene creazione, perché ciò che Dio racconta è ciò che Dio crea, e ciò che Dio crea, esiste ed è Vero.
APPENDICE
A fare l'esoterico so' bravo pure io
Se dovessimo metterci a parlare del ruolo del numero tre nella cultura (occidentale e no) e, in particolare, nella Commedia di Dante, non la finiremmo più.
Limitiamoci a due occorrenze.
La prima, non in ordine cronologico ma espositivo, si presenta nella scena più su descritta, quella della “processione mistica” degli ultimi canti del Purgatorio. Vi appaiono (tra tanti altri personaggi) tre donne che rappresentano le tre Virtù Teologali (come dice il Catechismo, “esse dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità”) identificate con tre specifici colori:
FEDE-BIANCO
SPERANZA-VERDE
CARITÀ-ROSSO
Le Virtù Teologali nella rappresentazione di Piero del Pollaiolo |
Tralasciamo i simbolismi associati, e passiamo alla seconda occorrenza.
Il Lucifero dantesco possiede tre facce, che sono di tre colori diversi (come le virtù teologali). La triade luciferina è un'inversione-parodia della “santissima trinitade” come viene descritta alle porte dell'Inferno:
PADRE-Divina Podestate
FIGLIO-Somma Sapiena
SPIRITO SANTO-Il Primo Amore
L'inversione, associata ai colori delle facce (secondo Giorgio Inglese):
GIALLA-ODIO
ROSSA-IMPOTENZA
NERA-IGNORANZA
Le facce non hanno il colore giusto, ma non sottilizziamo |
Ora, prendendoci qualche libertà con la disposizione lineare di questi terzetti di colori, potremmo sintetizzare in questo modo:
VERDE-BIANCO-ROSSO = SOMMA VIRTÙ
NERO-ROSSO-GIALLO = SOMMO MALE
Dixi.
N.B. Le tesi su esposte sono del tutto assurde, dato che l'immagine dantesca non ha niente a che fare con la bandiera italiana, che ha tutt'altre origini, e tanto meno esiste un nesso tra la figura di Lucifero e il vessillo tedesco.
D'altra parte...
D'altra parte...
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