giovedì 8 dicembre 2022

Coriandoli – Faust, Werther, Dante, Boito e Dostoevskij (e una parodia di Mefistofele)

MEFISTOFELE: Sono lo spirito che nega sempre!

E con ragione, perché tutto ciò che nasce

è degno di perire.

Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla.


Can you feel it, Mr. Anderson, closing in on you? Well, I can. I really should thank you for it, after all, it was your life that taught me the purpose of all life. The purpose of life is to end.

(Matrix Revolutions)



Nel
Faust di Goethe, la compresenza di elementi della cultura classica ed elementi dell'immaginario cristiano-occidentale non denota affatto una unione, e neanche un accostamento.

Mentre in Dante le immagini della classicità e quelle del cristianesimo convivevano senza attrito apprezzabile (insieme a quelle della contemporaneità storica e cronachistica), in Goethe ciò non è più possibile. La riscoperta umanistica della cultura classica, che dal Rinascimento procede verso l'Illuminismo, è tutt'uno con la secolarizzazione dell'Europa cristiana. Faust, per incontrare Elena, deve avvicinare oscure divinità (le Madri) o avere l'aiuto di una sibilla (curiosamente, omonima di una figura dantesca di secondo piano), mentre Dante se la vede passare sotto gli occhi in un girone dell'Inferno cristiano. Mefistofele si sente a disagio tra le ombre attiche perché Goethe non può più porre il Caronte virgiliano nell'inferno cristiano-occidentale, non può chiamare Dio “sommo Giove” come fa Dante. I due mondi sono definitivamente separati.

Inoltre, il cristianesimo che dà origine a Mefistofele è, campanilisticamente, quello delle “streghe del nord”, un cristianesimo protocollare, senza vizi, senza virtù, senza né pentimento né contrizione, in cui la salvezza giunge senza un qualsiasi senso etico-morale, a meno che i propositi di bonifica di Faust non siano il picco virtuoso della nuova classe in ascesa...


Werther (che è bipolare: “Quante volte cullo il mio sangue in ebollizione fino a calmarlo, e non ti capiterà mai di trovare qualcosa di più disuguale, di più instabile di questo mio cuore. Caro, ma devo proprio dirlo a te che così spesso hai dovuto sopportare di vedermi passare dalla titubanza all’eccesso e dalla malinconia più dolce alla passione più sfibrante?”) apprezza il popolo, per la sua capacità di vivere la vita senza grilli metapsicologici: “Ti dico, mio diletto, che quando mi sento scoppiare basta la vista di una simile creatura a sedare tutto il mio tumulto, una creatura che in fiduciosa accettazione percorre lo stretto cerchio della sua esistenza, che tira avanti da un giorno all’altro, vede cadere le foglie e pensa soltanto che sta arrivando l’inverno.”

E cerca di assorbire questa naturalezza dandosi alla cucina (“Quando allo spuntar del giorno esco e m’incammino verso Wahlheim e là nell’orto dell’osteria raccolgo da me stesso i piselli e mi metto a sedere e li sgrano leggendo frattanto il mio Omero… quando nella piccola cucina prendo un tegame, ci metto il burro, i piselli, il coperchio e mi siedo accanto al fuoco per rimestarli di tanto in tanto, mi sento pieno di vigore come gli arroganti pretendenti di Penelope che da sé macellavano buoi e maiali, li squartavano e li arrostivano. Non c’è niente che mi dia una sensazione di calma, di autenticità, come queste usanze di vita patriarcale che io, grazie a Dio, intesso senza affettazione nella mia esistenza di tutti i giorni.

Come sono contento che il mio cuore sappia provare la semplice, ingenua delizia dell’uomo che mette sulla sua mensa un cavolo coltivato da lui stesso, e non il cavolo soltanto, bensì tutti i giorni belli, il bel mattino che lo piantò, le dolci sere che lo innaffiò, e la sua contentezza nel vederlo crescere di giorno in giorno: tutto si concentra in quell’istante.”) e soprattutto frequentando i bambini: “Eh sì, caro Guglielmo, per me i bambini sono la cosa più preziosa del mondo. Quando li sto a guardare e vedo in quei piccoli esseri il germe di tutte le qualità, di tutte le energie che un giorno gli saranno tanto necessarie… quando scorgo nell’ostinazione la futura perseveranza e la fermezza di carattere, e nella loro petulanza il buon umore e la leggerezza per sgusciare fuori dai pericoli del mondo, e tutto in modo così schietto, integro, ripeto sempre, sempre le auree parole del Maestro degli uomini: «Se non diverrete come uno di loro…» E invece, mio caro, loro, i nostri simili, che dovremmo prendere a esempio, noi li trattiamo come dei sudditi. Non devono avere una loro volontà! Ma noi non ne abbiamo una, forse? E dove sarebbe il privilegio? Nell’essere più vecchi e più abili? O buon Dio del cielo, tu non vedi che bambini vecchi e bambini giovani e nient’altro; e di quali ti compiaci di più, l’ha già espresso tuo figlio tanto tempo fa.”

Quale abissale differenza coi bambini di Dostoevskij, o se è per questo, anche di Ferenc Molnár!

Inoltre, di fronte alle abitudini di lettura di Lotte (“Quand’ero più giovane», disse, «amavo sopra ogni cosa i romanzi. Lo sa Dio com’ero felice la domenica, quando potevo sedermi in un angolo e partecipare con tutta me stessa alla buona e mala sorte di miss Jenny. Non voglio negare che questo genere mi affascina ancora, almeno in parte. Ma poiché accade così di rado che possa prendere in mano un libro, voglio che sia proprio di mio gusto. E preferisco l’autore nel quale ritrovo il mio mondo, quel che accade intorno a me, e la cui storia mi interessi e mi stia a cuore come la mia esistenza casalinga, la quale non è certo un paradiso, ma è comunque fonte di straordinaria beatitudine”) lui, che si porta sempre appresso il “suo” Omero (e in seguito stravedrà per Ossian), si dichiara nettamente entusiasta. Secondo questa visione, qualsiasi lettore si sentirebbe quasi in dovere di buttare nella spazzatura il 99 per cento della letteratura mondiale!

Dulcis in fundo, Werther è tanto gentile da suicidarsi in prossimità del Natale, in modo da avvelenare la festa per tutti quanti: “O Lotte, oggi o mai più. La vigilia di Natale terrai fra le mani questo foglio, tremerai e lo bagnerai con le tue lacrime amorose.”

Premuroso.




All'inizio del Faust, Goethe (l'impresario) ci promette un itinerario onnicomprensivo:

“Su queste quattro assi percorretemi/ l’arco tutto intero del creato/ e passate, rapidi ma cauti,/ dal cielo per il mondo giù all’Inferno.”

Ma l'Inferno non ci verrà mai mostrato, ed è logico che sia così: lo stesso Mefistofele, ad esempio quando parla dell'origine diavolesca delle montagne, sembra non crederci veramente.


A differenza della tradizione leggendaria, che vede Faust vendere anima e corpo al diavolo in cambio dei suoi servizi (accade così anche in Marlowe), il Faust di Goethe non stipula affatto un patto col demonio, ma piuttosto fa con lui una scommessa (che duplica quella già avvenuta tra Dio e Mefistofele): nel momento in cui si riterrà integralmente soddisfatto del suo stato (dicendo all'attimo: “fermati, sei bello!”) allora, e solo allora, la sua anima apparterrà all'Inferno. Dato che Faust giungerà a tale affermazione solo in modo ipotetico, accettare tale sfida è stato, da parte di Mefistofele, un errore.

Ci sarebbe quasi da aver compassione di lui, sin dalla sua prima apparizione, tutt'altro che inquietante, da can barbone: il cane che appare all'inizio di Umiliati e Offesi, patetico cadavere ambulante paragonato da Dostoevskij a Mefistofele, magari è l'incarnazione di un Beffardo umiliato e sconfitto, nell'epoca susseguente al finale del poema di Goethe.


Anzi, a voler essere precisi, questo è il secondo errore di Mefistofele.

Lo spirito beffardo ha fatto una scommessa con Dio, ignorando ingenuamente che la partita era, sin dall'inizio, truccata. Difatti, Mefistofele non ha avuto nessuna difficoltà nell'implicare Faust in ogni sorta di azioni riprovevoli, ma non ha fatto i conti con il diritto di prelazione che Dio ha su qualsiasi anima, purché ci sia un minimo di intercessione (magari di ploranti figure femminili) e magari una “lagrimetta”.

Ma qui è anche il poeta, cioè Goethe, che trucca le carte.

In Faust non c'è segno né di pentimento né di contrizione, la sua salvazione è frutto esclusivo di un intervento esterno, il che è poco cattolico, ma non implica nemmeno la giustificazione per fede, visto che Faust è indubbiamente ateo, all'inizio come alla fine, e i suoi filosofemi panteistici sono epidermici, estetici (in senso kierkegardiano), romantici (quasi sempre la natura goethiana si manifesta con tuoni e rovesci), completamente privi di implicazioni spirituali, a dispetto degli appelli al “Sublime Spirito”.

Il diavolo di Goethe è il diavolo di Jigoku shōjo.

Basti pensare, per contrasto, alla Margherita di Bulgakov, che si sente quasi costretta a invocare clemenza per Frida (infanticida come la Margherita del Faust), una manifestazione di caritas inconcepibile in Goethe.

In breve, niente pietà, niente misericordia, niente pentimento, niente contrizione: Faust si salva perché sogna di dar vita a una colossale opera di lottizzazione.

Dio ama i palazzinari.

Ma la salvezza finale di Faust è anche la manifestazione di una speculare identità di vedute tra lui e Dio.

Così come l'Eterno apprezza l'operato “stimolante” di Mefistofele (L’attività dell’uomo facilmente si affloscia, /egli ama presto indulgere al riposo assoluto; /volentieri perciò gli do un compagno /che lo stimola e deve fare il diavolo.), Faust trova la chiave della felicità collettiva nello “stimolo” di una minaccia incombente:


Aprirò spazi dove milioni di uomini

vivranno non sicuri, ma liberi ed attivi.

Verdi, fertili i campi; uomini e greggi

subito a loro agio sulla terra nuovissima,

al riparo dell’argine possente

innalzato da un popolo ardito e laborioso.

Qui all’interno un paradiso in terra,

laggiù infurino pure i flutti fino all’orlo;

se fanno breccia a irrompere violenti,

corre a chiuderla un impeto comune.

Sì, mi sono votato a questa idea,

la conclusione della saggezza è questa:

merita libertà e la vita solo

chi ogni giorno le deve conquistare.

Così vivranno, avvolti dal pericolo,

magnanimi il fanciullo, l’uomo e il vecchio.

Vorrei vedere un simile fervore,

stare su suolo libero con un libero popolo.


In pratica, le sciagurate “facce de cazzi” (Belli) che aspirerebbero a un'esistenza quieta, serena, domestica e (perché no) mediocre sono fottute: da una parte c'è Dio, che scatena contro di loro ogni sorta di spirito “provocatore” (dal testo goethiano si intuisce che parte del compito “stimolante” di un Mefistofele consiste del causare stragi immani tramite ogni genere di catastrofe naturale), dall'altra i “benefattori” come Faust, che, facendoli vivere nell'insicurezza, li incita a unirsi per salvare la pelle (non certo per formare un sindacato, Dio ce ne scampi), e le facce de cazzi possono così condurre un'esistenza finalmente “autentica”.

Altrimenti, per dirla con Goethe, si afflosciano.

Faust opera come un nuovo (anti-)Nimrod.

La collettività umana, ancora linguisticamente (e quindi culturalmente) intera, poteva dedicarsi a imprese letteralmente sovrumane, come la costruzione di una torre che raggiungesse il cielo. Ma l'intervento divino, che sfarina l'unica lingua degli uomini in una miriade di frammenti particolari, locali e tribali, rende da lì in poi impossibile una tale, potentissima, unità di intenti. Faust, utilizzando il collante della minaccia esistenziale (il “fiotto” dell'inondazione), fa sì che, seppure in maniera limitata, una comunità umana operi come se fosse un unico organismo, recuperando, anche se solo localmente, l'originaria unità dei figli di donna.

Alla faccia di Menenio Agrippa.

Del resto, Faust esemplifica la transizione di Prometeo, da divinità tutelare degli esseri umani, a eroe romantico e ribelle: gli interessi di Faust sono puramente personali e privati. Non a caso il suo caso è presentato come un eccesso di orgoglio e presunzione (ma non da Goethe).


Anche Dante, come Faust, subisce un accecamento rituale (Paradiso XXV-XXVI), ma nella Commedia la cecità (transitoria) accompagna il protagonista alla piena conoscenza della suprema virtù (la Carità), in Goethe è fonte di inganno: non è un fosso che Faust sente scavare, ma una fossa. E la sua visione finale (le moltitudini di individui che vivranno in armonia sulla battigia bonificata) è l'ennesima illusione, il sintomo fantasmatico della sua pulsione arrampicatrice.


Faust è un'opera composita, diseguale, e questo è molto apprezzato dai critici (del resto un libro mondo che si rispetti ha sempre un che di enciclopedico, di cumulativo), ma, intendiamoci, c'è rapsodia e rapsodia. Se un canto della Commedia di Dante fosse andato perduto, staremmo ancora qui ad almanaccarci sul suo contenuto, e altrettanto possiamo speculare sul seguito del Prometeo Incatenato di Eschilo, o su quello dei Fratelli Karamazov (così come sul finale di tante opere lasciate incompiute). Si badi bene, sto parlando di vuoti evidenti, evocati da una struttura che, più o meno, li implica. Se il trattato aristotelico dedicato alla comicità (spunto narrativo del Nome della Rosa) non fosse citato in altri testi, non ne percepiremmo la mancanza, non con sicurezza. Invece, per tornare all'esempio del canto dantesco mancante, il vuoto lasciato dalla tessera smarrita testimonia la compattezza dell'intero mosaico.

Nel Faust, all'opposto, tranci interi del testo potrebbero tranquillamente scomparire senza lasciare traccia, e senza che il resto dell'opera ne risenta. Da un punto di vista decostruzionista, si tratta di una cosa estremamente positiva.


Nel Prologo in cielo del Mefistofele, Boito evita di mettere in scena Dio. Goethe, sull'esempio del libro di Giobbe, può permettersi di scrivere un dialogo tra il Diavolo e il Padreterno, ma far cantare l'Altissimo è tutt'altra cosa. Vero è che l'opera lirica ha trattato figure numinose, ma erano perlopiù divinità pagane (un Händel che mette in scena Apollo e Mercurio, Rameau Venere, Wagner Odino, Gluck addirittura Giove), ma, appunto, perfino per il “massone gnostico” Boito far cantare Dio doveva sembrare un'assurdità. Così, la voce dell'Eterno si manifesta in due sole battute, articolate dal coro.

[Incidentalmente, oggi la figura del Signore degli eserciti vale un soldo alla dozzina, nella finzione narrativa. Soprattutto nelle serie televisive ha assunto una fisionomia prossima a quella di un arconte o un demiurgo qualsiasi]


Il Mefistofele, nella regia di Robert Carsen, convoglia tratti tradizionali (il color rosso), che accostano la figura del diavolo a quella del giullare (le code del berretto a sonagli che si accostano alle code del frac, che a loro volta evocano la coda del drago apocalittico), con elementi moderni che accostano esteticamente il diavolo al prestidigitatore da palcoscenico.




Nella versione Carsen, gli angeli e santi del Paradiso (così come gli angioletti) sono vestiti come i membri di una confraternita dedita alle processioni più barocche. Tranne che per la corona, che dovrebbe essere privilegio della Vergine. Ma tant'è: il coro angelico inneggia alla Madonna, ed è comprensibile che ne venga in qualche modo conformato, come un gruppo di cosplayer. La corona, nel contesto del Paradiso-Teatro di Carsen, viene “riciclata” da alcuni membri del coro nella sequenza della festa di paese: la storia di Faust (e Mefistofele) è uno spettacolo, e le figure angeliche osservano dai loro palchi l'opera di Boito, o addirittura vi intervengono (la salvazione di Margherita).

Nel XXXI di Paradiso, Dante contempla i beati disposti in “candida rosa”, che è anche un anfiteatro. I beati di Carsen abitano un teatro lirico che rispecchia quello affollato dagli spettatori dell'opera che viene messa in scena. (Dio regista).


Gli “angioletti” che tanto infastidiscono Mefistofele hanno un'identità ambigua. Che siano “volanti dai limbi” è inammissibile, dato che gli infanti morti prima del battesimo appartengono, per antica tradizione popolare, al cosiddetto limbo dei bambini (che mai potrebbero accedere al Cielo), e nemmeno sono quelli morti dopo il battesimo ma prima di poter peccare (fanciulli che Dante sparpaglia per la candida rosa dell'Empireo – Paradiso XXXII) o morti intorno alla mezzanotte, come nel finale di Goethe. Come indica anche il testo di Boito, essi sono “amori”, gli eroti, i cupidi pagani riciclati come putti alati nell'iconografia umanistica. E c'è di più. Il basso che canta la parte di Mefistofele “finge” di essere il diavolo (o un diavolo), ma i componenti di un coro di voci bianche, in questo caso, “fingono” di essere “cori di bimbi”, e nel contempo lo sono realmente. Il loro canto non necessità di interpretazione da parte dello spettatore, Boito fa coincidere finzione e realtà corporale, generando spettacolo puro.


Il canto operistico tende, per le sue caratteristiche tecniche, a rendere ardua la decifrabilità del testo (“ch’or sì or no s’intendon le parole” - Purgatorio IX, 145), ma questo tratto storico-artistico diviene, nel finale del Mefistofele, tratto emblematico e simbolico. Le ultime battute di Mefistofele (sconfitto) vengono sommerse e cancellate dal tonante coro dei beati, e tuttavia il “reprobo” riesce a penetrare la marea di santità che lo travolge utilizzando la più personale delle sue armi da spirito beffardo: il fischio.


Diluvian le rose

sull'arsa mia testa,

le membra ho corrose

dai raggi e dai fior.

Fuggiam la tempesta

dei chèrubi dôr.

M'assale la mischia

di mille angioletti,

inneggian gli eletti,

ma il reprobo fischia!


D'altra parte, le salaci osservazioni di Mefistofele sulla seduttività inconsapevolmente briccona degli angioletti nel finto teatro di Goethe (“E potreste anche andare, con decenza, più nudi,/ il camicione a pieghe è eccesso di pudore/ Si voltano - da dietro che visione!/ Queste birbe son troppo appetitose!”), nel vero teatro di Boito risulterebbero fuori luogo.


Sul finale Boito cita la pioggia di petali che gli angioletti utilizzano contro di lui come arma non convenzionale: “Diluvian le rose/ sull'arsa mia testa,/ le membra ho corrose/ dai raggi e dai fior.” (Goethe: “Mi bruciano la testa, il cuore, il fegato,/ è un elemento peggio che diabolico!/ Più pungente del fuoco dell’Inferno!”)


Se è pur vero che nel preludio del Mefistofele si respira un'aria di “musica dell'avvenire”, bisogna osservare che mentre Wagner si effonde, dilaga (pur tornando più volte al suo tema), Boito è ciclico, ferreo, conchiuso, in breve “sferico”.


[Il direttore si volta verso il pubblico, appoggia le mani sul bordo del golfo mistico, da cui sporge a malapena dalle spalle in su, e china la testa fin quasi a toccarlo]


Tratti danteschi: teodie, alleluiate, si scoscendono, trasumanar, io mi sobbarco, gualdane, attoscata, a frusto a frusto, s'incela, ritorte, latebra... Primo Mefistofele: s'impola, a randa a randa, alzar le berze, [strano ludo = nuovo ludo], leppo, arra...

Ma il dantismo più significativo è “trasumanar”, che denota la prospettiva dalla quale Boito guarda alla hybris di Faust, cosa relativamente meno importante in Goethe.


Nel Primo Mefistofele l'ipotesi di dire “all'attimo: fermati, sei bello!” era “al tempo: t'allenta sei bello!”

“Largo, largo alla moglie dell'orco

Che galoppa a cavallo d'un porco.” (Ibid)

In Goethe, l'immagine riguarda Baubò.


Tutti notano come Boito sia l'unico a utilizzare, per il suo adattamento, anche la seconda parte del Faust, e normalmente attribuiscono la cosa alle tendenze “popolari” degli altri adattatori. Gente, insomma, che non poteva capire il sottile avanguardismo di Goethe.

Ma proprio il Mefistofele di Boito, con la sua episodicità, mostra in maniera palmare quale sia il problema. Che Faust, dopo la tragica fine di Margherita, se ne vada in giro in cerca di nuove sensazioni, che abbia una storia d'amore con Elena di Troia (e meno male che Boito omette il figlio concepito con lei), è uno scenario per cui nessun pubblico potrebbe provare empatia.

Boito risolve premendo fino in fondo il pedale dello spettacolo.


Perché i personaggi-simbolo danteschi sono, appunto, simboli e al contempo personaggi a tutto tondo; il figlio di Faust è tutta allegoria, vuoto emblema: alla fine cos'è lo streben, se non una parola?


Gli elementi “cattolici” di Goethe sono facciate vuote, mentre in Boito, massone/gnostico che sia, essi acquistano spessore, forse, chi lo sa, per un semplice fattore culturale, almeno in due casi in cui si prega (nessuno prega davvero nel Faust di Goethe).


Boito:


Margherita:

Ah! A questa moribonda…

Perdonerai, Signor.

Padre santo… mi salva…

(...)

E voi, celesti, proteggete questa

Che a voi si volge…


Faust:

Dio clemente, m’allontana

Dal demonio mio beffardo

(,,,)

Non indurmi in tentazion!


Invece in Goethe nessuno prega, nessuno fa mai atto di contrizione. Perfino Greta, che si autoaccusa della morte della madre e del fantolino, nel raccomandarsi a Dio in punto di morte si limita a una succinta, protocollare richiesta:


Giudizio di Dio! A te mi sono data!

(...)

Tua sono, Padre! Salvami!

Angeli! Sante schiere,

fatemi scudo intorno, difendetemi!


In precedenza, è vero, si è rivolta all'Addolorata (“Aiutami tu! Salvami dall’onta e dalla morte!/ Ah, china,/ o Addolorata,/ clemente il tuo viso alla mia angoscia!”), ma anche questa è più che altro una richiesta d'aiuto, senza alcun spirito d pentimento: soffro tanto, tu che pure hai sofferto aiutami.


Si può dire che la preghiera del Faust di Goethe, se ci fosse, sarebbe simile a quella descritta (e invocata) da un personaggio del Doctor Faustus di Mann, Chaim Breisacher: “Alle religioni universali e prive di individualità fu riservato il compito di fare della «preghiera» un accattonaggio, una petizione di grazie, un «ahimè, Signore», un «Dio, abbi pietà di me», un «aiutaci» e «dài» e «sii così buono». La cosiddetta preghiera... (…) La preghiera (...) è la forma tarda, volgarizzata e razionalisticamente annacquata d'una cosa molto energica, attiva e forte, cioè dello scongiuro magico, della costrizione di Dio.”


Faust, poi, non solo non si pente mai delle sue (molte) malefatte (a parte l'erratica esclamazione “Ah, non fossi mai nato” al cospetto della sofferenza di Greta), ma omette del tutto qualsiasi invocazione alla divinità. Non c'è traccia, qui, dei pentimenti in extremis di un Manfredi o di un Buoconte danteschi: Faust non si pente, non ne contempla nemmeno la possibilità. Egli si salva perché ha continuato ad agire, non perché si sia pentito di aver fatto una scommessa con Mefistofele. Il peccato, i Peccati, non esistono, nemmeno nella forma stereotipata di un Marlowe. Brunetto Latini, florido di Streben politico, finirebbe anche lui a far scuola agli angioletti. Mefistofele, nella sua scommessa con Dio, non si propone di indurre Faust al peccato, ma di sviarlo dalla ricerca incessante che nobilita l'esistenza dell'uomo (come dice Dio stesso, “L’attività dell’uomo facilmente si affloscia,/ egli ama presto indulgere al riposo assoluto;/ volentieri perciò gli do un compagno/ che lo stimola e deve fare il diavolo”).

I peccati hanno una natura costitutivamente sociale, mentre l'individualismo di Faust è totalmente impervio, l'agire conta più delle singole azioni in cui si materializza, l'impulso interiore, lo Streben, è tutto ciò che conta, tanto che Faust si congeda dalla vita con un progetto tutto mentale: l'Atto è tutto ciò che c'è, anche solo in Potenza.



Parodia (dal Mefistofele, Atto IV, “La luna immobile”)


Sospira il mantice

del ratto credulo

gordo di crapula


Giù nel cubicolo

del suo bisavolo

si sfrange il frenulo


Di gromma pùtreano

torbidi lasciti

di nonni perfidi


La moglie è prena

la botte è piena


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