venerdì 9 dicembre 2022

Zampetta zampetta, poppanti morenti, ancelle pendenti e appiccati scalcianti (da Omero a Dante, da Faust a Buffy)


 

Oh Hyun-jae: “A hanged person can last for four minutes up to 40 minutes. But the average is 14 minutes. Within 14 minutes most people die completely. How long will you last?”

(Tell Me What You Saw, ep. 16)


Già mi sento il laccio al collo

povero collo

povero Tracollo

(Giovan Battista Pergolesi, Livietta e Tracollo)


In Inghilterra, paese di commerci, prendono un contrabbandiere sulla costiera di Dover, lo prendono per dare l’esempio, per dare l’esempio lo lasciano appeso alla forca; ma, dato che le intemperie atmosferiche possono deteriorare il cadavere, lo avvolgono accuratamente in una tela spalmata di catrame, allo scopo di non doverlo sostituire troppo spesso. O terra di economia! incatramare gli impiccati!

(da Victor Hugo, l'Ultimo Giorno di un Condannato a Morte)


L'impiccagione è una gran bella cosa

Per intenderci: è che tra gli innumerevoli modi di togliere e togliersi la vita, la stretta al collo è tra i più pratici e misericordiosi.

Innanzitutto, parlando di suicidio, impiccarsi è semplice ed economico. Non richiede particolari mezzi (armi da fuoco, sostanze tossiche, automezzi pesanti, impianti elettrici, strapiombi o strutture elevate, eccetera), al caso basta un qualche straccio o cintura; non richiede atti di (seppur momentaneo) coraggio, necessario a un'Anna Karenina per buttarsi sotto un treno; è alla portata di tutti, senza distinzione di ceto o età, si impicca la regina Amata, che non sopporta l'idea di ritrovarsi un genero come Enea, e si impiccano gli sventurati bambini di Giuda l'Oscuro...

Ma l'impiccagione non è solo una procedura di morte, ma anche un ventaglio di simboli e metafore.

Come diceva Vittoria Ottolenghi, il balletto classico tende verso l'alto, sfidando la gravità, mentre la danza moderna cerca il contatto con la terra, aderisce al suolo. L'impulso vitale umano, quello che sfida la sua stessa corporalità, agisce in entrambe le direzioni, ma la seconda (quella di Anteo che riacquisisce potenza dal contatto con la Madre) è rassicurante, mentre la prima (guardate alla fine di Icaro o del figlio di Faust ed Elena, Euforione) è icona di un glorioso fallimento, perché, si sa, gli umani non possono volare.

La separazione dalla terra è insieme sacra ed esecrabile. È quella che permette a Odino (il dio degli impiccati) di perfezionare la propria divinità, e a Rea di salvare il piccolo Zeus dalla brama tecnofagica di Crono, sospendendo la culla del neonato a un albero, né in terra né in cielo, irrintracciabile.

La forca divide, dissocia, e addirittura, nella sua variante “umanitaria” dell'impiccagione per caduta, provoca una discontinuità del tronco cerebrale che è una sorta di decapitazione mascherata (“partito porto il mio cerebro, lasso!, /dal suo principio ch'è in questo troncone”; Inferno, XXVIII. Con la caduta, a volte al condannato gli si stacca la testa, ma tant'è).



[L'impiccagione per caduta è umanitaria perché provoca una morte istantanea, mentre l'impiccagione “semplice”, tra asfissia e mancato afflusso di sangue al cervello, impiega parecchio a uccidere, e a volte l'appeso si rianima, magari più di una volta; oppure non muore affatto, come successe nel 1613 al povero Ivan, figlio del secondo Falso Demetrio: avendo tre anni non pesava abbastanza da restare strangolato dal cappio, e restò appeso fino alla morte per ipotermia. È quasi più “umanitario” l'intervento, teso ad affrettare l'asfissia, dei tirapiedi del boia]

La croce, al contrario della forca, è segno di unione, unione tra l'alto e il basso (asse centrale) e tra l'est e l'ovest (traversa). È il collegamento tra il divino e l'umano (Cristo), e rappresenta anche il numero 4, che descrive il mondo reale, concreto, finito (contrapposto al 3, perfetto, conchiuso, divino).

Nella nostra cultura la contrapposizione tra impiccagione e crocifissione è irredimibile, al di là delle varianti olimpiche o norrene. Inutile chiedersi se le cose sarebbero diverse se i romani non avessero preferito una forma di supplizio piuttosto che un'altra (avremmo forse un monoteismo dell'”appeso”, come nei romanzi di Paul Hoffman), ormai è fatta: il crocifisso è Cristo (come dice Goethe, “l'empiamente trafitto”), e lo sgambettante, l'appeso per eccellenza, il principe degli impiccati, si chiama Giuda.




Belzebù li fa ballare

La danza è ordine, schema.

Perfino l'esibizione individuale di Salomè davanti a Erode Antipa non si può accostare al gesticolare scoordinato di un'adolescente in un rave, ma dobbiamo figurarcela come una progressione formalizzata, in stile kabuki.

Per questo, affibbiare al fremito di zanche dell'impiccato l'etichetta di danza è un beffardo controsenso, un caso di humor nero (non a caso, nella definizione anglosassone, “gallows humour”, umorismo patibolare, umorismo da forca), come dire che da quella carcassa penzolante, pendolo orrendo che conferma il moto terrestre, si può ricavare un insegnamento (castigat ridendo), nello stesso modo in cui, utilitaristicamente, ai suoi piedi si raccoglie la potentissima mandragora (il cane utilizzato per estirparla, e che ne muore, diventa il doppio sacrificabile dell'appeso).

No, una danza disordinata, caotica, è una contraddizione in termini, una danza siffatta sarebbe una anti-danza, un movimento inquinato, o meglio conformato dal demoniaco. È il dimenarsi a frusta delle tarantate, la convulsione degli epilettici, l'atroce contrazione tetanica degli intossicati, e infine il non-ordine imposto dalle potenze delle tenebre agli sciagurati figuranti della danza macabra, che non eseguono una coreografia, ma ne sono eseguiti.

Difatti, i fenomeni di isteria collettiva delle “epidemie coreografiche” (dance plague), come quella alsaziana del 1518, confermano quest'interazione pervertitrice tra demoniaco e attività umana (danza), ed è la materializzazione della danza macabra degli affreschi di camposanto (meravigliosamente ripresa nel finale del Settimo Sigillo bergmaniano).

Analogamente, nell'episodio settimo della sesta stagione di Buffy, il demone Sweet provoca una frenesia danzante che porta i soggetti colpiti all'autocombustione; ma il clima, più che danza macabra, è da commedia musicale, che richiama scene dal Maestro e Margherita (“Si diressero ai propri posti, ma non fecero in tempo a sedersi che, contro la propria volontà, presero a cantare. Fermarsi? Magari! Stavano zitti per tre minuti forse, e poi via di nuovo!”)



A short drop and a sudden stop

Come si sa, per Faust il primo tentativo di accaffare la divina Elena di Troia si risolve in un fallimento. Nonostante tutta la tenebrosa retorica dedicata alla figura delle Madri (tanto cara all'esoterismo europeo fin de siecle), nonostante l'ausilio di un tripode che zampetta come un poggiapiedi disneyano, le figure di Paride ed Elena (recuperate a intrattenimento del Sacro Imperatore) si rivelano inconsistenti, fumose, fragili, momentanee.

Ma Faust non demorde, e finisce per ottenere quello che vuole, cioè un'Elena in carne ossa e spirito, grazie all'intensità del suo desiderio. Chiodo fisso goethiano, lo streben, questa sorta di positive thinking trascendentale: se desideri fortemente qualcosa, i numi ti accontenteranno (nella fattispecie si tratta della sibilla Manto, e qui l'uso del nome della figlia di Tiresia da parte di Goethe è quantomeno discutibile)!

Ma la donna divina risorge con un'identità incerta, frantumata (“Quale io sia, neppure ora lo so”). Passato remoto, passato prossimo, leggende incerte e contraddittorie le annebbiano la mente, tanto che crede di sperimentare (o inconsciamente inscena) un suo ritorno a Sparta, dal marito che aveva a suo tempo abbandonato per seguire il bel Paride fino alla fatale e superba Troia.

Questo nostos la riempie di angoscia. L'antico sposo le ordina di allestire il necessario per un sacrificio rituale, con parole velatamente minacciose: “e per finire non manchi un ben affilato coltello”.

Mefistofele, nelle vesti di vecchia di assoluta bruttezza (contrapposta alla sempiterna bellezza fanciullesca di Elena) glielo sbatte in faccia: la vittima del sacrificio è lei. Tra Mefistofele e le ancelle al seguito della regina c'è un battibecco (o meglio, un contrasto in versi), che vira dal comico al trucido, quando il diavolo prospetta alle fanciulle una fine miserevole: “sotto il timpano del tetto, dentro, all’alta trave appese/ come tordi all’uccellaia voi sgambetterete in fila”.

Goethe sta qui citando quasi alla lettera Omero, che nel finale dell'Odissea descrive l'esecuzione delle ancelle “colluse” coi pretendenti alla mano di Penelope:


così esse in fila tenevano il capo e intorno al collo avevano un laccio perché più crudele fosse la morte. Scalciarono con i piedi, ma per poco tempo. (Odissea XXI, 471-473)


[Incidentalmente: Telemaco, incaricato dal padre di passare a fil di spada le ancelle infedeli, le vota a una fine meno “onorevole”: “Non voglio strappare la vita con un rapido colpo a queste donne che sulla testa mia e di mia madre riversarono infamia, e dormivano coi Pretendenti”.]


È qui da osservare l'infamia particolare dell'esecuzione collettiva.

L'esecuzione individuale, che si tratti di un eroe anticolonialista come Omar al-Mukhtar o di un infame come Julius Striker, rende comunque il condannato protagonista dell'evento. L'impiccagione di gruppo, invece, non è che una variante (mirata) della strage, e le singole identità dei condannati si perdono in quella del gruppo, rendendo protagonista, in questo caso, l'azione degli esecutori, evidenziando la loro funzione statuale.

Le ancelle infedeli sgambettano come Pinocchio (che “sgambettava più che mai”) o la povera Esmeralda di Hugo, ma per loro non ci sarà una resurrezione a furor di popolo, come accadde col personaggio di Collodi. E un triste destino tocca anche alle ancelle troiane di Goethe. Scampate al destino delle loro cugine omeriche, una volta terminata la sezione del Faust dedicata all'idillio Faust-Elena, non torneranno (come Elena, Pantalis ed Euforione) nel cloud di un immaginario collettivo pseudo-junghiano, ma si trasformeranno in oggetti acquatici di ogni sorta. Si badi bene, mentre le metamorfosi ovidiane hanno molto spesso un carattere negativo, dato che il personaggio (un esempio fra tutti, Mirra) perde sia la coscienza sia l'individualità per evitare un destino indesiderabile, in Goethe quest'annullamento dell'io viene descritto in termini bucolicamente positivi. Ma le ancelle troiane del Faust non sono le navi troiane che, come racconta Virgilio, una volta giunto Enea alla sua meta laziale, si trasformano in ninfe marine (Nereidi). Queste ultime salgono di livello esistenziale, perché, artefatti umani che furono, acquistano individualità e autoconsapevolezza e corporalità (con membra di dee, per sovrappiù), mentre le ancelle di Goethe, lo ribadiamo, vedono svanire la loro soggettività e si trasformano letteralmente in materia (acqua).

Ma sullo sgambettare c'è di più (vedi più in basso).



“Ecco la scarpa, ma dov'è il piede?”

La presenza, o meglio, il fantasma acustico dei corpi infantili, il pesticciare di piccoli piedi, è un segnale di vita, ma, al tempo stesso, presagio di morte. Niente è peggio dell'assenza di quel rumore. “Ecco la scarpa, ma dov'è il piede?” si domanda inconsolabile la madre che cerca conforto rivolgendosi allo starec Zosima (nei Fratelli Karamazov), oppure, in maniera sublimemente grottesca, la Chantefleurie di Notre-Dame de Paris.

Sintesi orrenda: la scarpetta infantile della Esmeralda, figlia perduta, prelude alla iniqua morte per impiccagione della fanciulla.

Ed è anche la terribile sintesi del racconto tragico più breve del mondo, proposto dallo pseudo-Hemingway: “In vendita, scarpe bimbo, mai usate” .

La scomparsa del bambino evoca il nulla, l'oblio, come succede alla vecchia madre del Deserto dei Tartari, che non si sveglia più istintivamente al rumore dei passi del figlio. Egli è ormai assente da troppo tempo.

La sofferenza della madre dostoevskiana si manifesta anche attraverso una ossessiva, ritmica agitazione fisica, simile a quella del sacro isterismo delle “strillone” (klikushi), che si ricollega, è ovvio, alle convulsioni delle tarantolate. Il bimbo morto del romanzo porta lo stesso nome del figlio treenne che D. perse nel 1878, e la madre, Anna Grigor'evna, riferisce che il piccolo morì di convulsioni (rodimets) (Robert Louis Jackson, A New Word on The Brothers Karamazov, pag.37). Di nuovo, un'involontaria danza di morte.



Dante allarga il cerchio...

L'Alighieri non ci presenta direttamente soggetti impiccati, ma solo de relato. Abbiamo il concittadino che fece di sé “gibetto alle (sue) case” (insomma, come chiarifica Sermonti, si impiccò a una trave di casa), e la povera regina Amata, già citata più sopra, che non sopportando l'idea di dare la figlia Lavinia in sposa a uno straniero (Enea), si appende anche lei al soffitto del palazzo reale.

Ma lo spettro dell'archetipo degli appiccati (Giuda) emerge potentemente nel destino riservato ai suicidi nel settimo cerchio dell'Inferno. All'avvento del futuro definitivo, al tempo della resurrezione della carne, coloro che si sono privati della vita non riacquisteranno la corporalità che attende (e spetta) a tutti i morti, beati o dannati che siano. Trasformati in piante sterili e tossiche, vedranno le loro spoglie appese ai loro rami contorti e stecchiti, contempleranno per l'eternità la loro carcassa penzolante, eterna forca di se stessi.

[Rovesciamento di un rovesciamento, i simoniaci di Malebolge (Inferno XIX) sono ficcati a testa in giù in blasfemi pozzetti battesimali, buchi da cui spuntano solo le gambe, costrette a danzare freneticamente dalle fiamme che avvolgono i piedi: impiccati carnevalescamente capovolti.]


...e Goethe lo chiude

La povera Margherita, ingenua (seppure tutt'altro che stupida) fanciulla del villaggio, viene sedotta facilmente dalle ciance grossolanamente misticheggianti dell'elegante, aristocratico e cosmopolita Faust, e nella fase felice del loro rapporto, lei rievoca la figura della sorellina:


MARGHERITA:

L’ho tirata su io, e mi voleva bene.

Nacque dopo la morte di mio padre.

La mamma la davamo ormai per morta,

tanto male stava allora,

e si riprese solo a poco a poco.

Ma non poteva pensare nemmeno

ad allattare lei la povera bambina,

la tirai su io tutta da sola,

a latte e acqua; e divenne mia.

Fra le mie braccia, in grembo a me

cresceva, sorrideva, zampettava.

(Faust, 3125-3135)


Va da sé che la piccolina è morta prima di uscire dalla prima infanzia-

Poi, quando Margherita, sedotta e abbandonata (e incinta, ci mancherebbe), si ritrova condannata a morte per avere affogato la sua creatura e per avere (forse) avvelenato la madre, il bel tomo le si presenta (nella gattabuia) desideroso di “salvarla”. Lei rifiuta il suo aiuto, ormai in delirio, ed evoca l'immagine del neonato che. Mentre affoga, si agita a fior d'acqua:


MARGHERITA:

Svelto! Svelto!

Salva il tuo povero bambino.

Corri! Segui il sentiero

su per il ruscello,

oltre il ponticello,

dentro il bosco,

a sinistra, dove c’è il pontile

nello stagno.

Afferralo subito!

Vuole sollevarsi,

sgambetta ancora!

Salva! Salva!

(Faust, 4551-4562)


Ora, occorre notare che nel primo di questi due frammenti il termine “zampettava” rende l'originale “zappelte”, mentre nel secondo il termine “sgambetta” traduce “zappelt”. Si tratta di un verbo (zappeln) che descrive un agitarsi nervoso, ed ecco che, alla fine, ci troviamo di fronte la convergenza tra un vitalissimo pesticciare di piccini e le convulsioni dell'agonia. Il suono della speranza fa da accompagnamento alla "morte scoscesa" di Omero.

Ma forse è proprio nella solitudine della morte che si può percepire fino in fondo la musica struggente di un chiasso di bambini.

Sì, non vi è morte più nobile di quella consumata avvolti nello strepito frondoso dell'infanzia.

Dixit.


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