di Domenico D'Amico
Cosa
ci vuole per leggere l'Ulisse di James Joyce?
Che
domanda... Cosa ci vuole per leggere un libro?
Innanzitutto
saper leggere, direte.
Magari,
dico io. Già l'abilità di leggere e scrivere sviluppata dall'Homo
Sapiens Sapiens ha del misterioso (o del miracoloso), e non a
caso gli esseri umani hanno a lungo attribuito queste capacità
all'intervento di forze sovrannaturali, affratellando lettura e
scrittura alla folgore e al terremoto (non intendo parlare della
literacy
in sé, o sua decadenza, con tutto il suo corredo
di diatribe e geremiadi sulla gente che non legge, su come si possa
rimediare, eccetera). Quando ho detto “un libro” intendevo
“letteratura”.
Se
il compitare è miracoloso, leggere un libro (un intero libro!) ha
dell'inspiegabile (quasi quanto il fatto che qualcuno l'abbia
scritto).
Tuttavia,
volendoci spiegare il miracolo, ci chiederemo quali competenze debba
padroneggiare chi si arrischi a leggere (tanto per dire) I
Fratelli Karamazov.
Per organizzare la propria strategia testuale un autore deve riferirsi a una serie di competenze (espressione più vasta che “conoscenza di codici”) che conferiscano contenuto alle espressioni che usa. Egli deve assumere che l’insieme di competenze a cui si riferisce sia lo stesso a cui si riferisce il proprio lettore. Pertanto prevederà un Lettore Modello capace di cooperare all’attualizzazione testuale come egli, l’autore, pensava, e di muoversi interpretativamente così come egli si è mosso generativamente. (Umberto Eco, Lector in Fabula, Bompiani 1979 [XI ed.], pag.53)
Facile
a dirsi. Certo, un lettore “non Ideale” potrebbe leggersi I
Fratelli Karamazov come un giallo (cosa che in effetti è), e
trascurare certe parti, come quelle che parlano delle idee di Ivan o
dello starec Zosima, liquidandole come bizzarrie attribuibili alla
personalità dell'autore (“Dostoevskij era un po' matto!”), ma è
anche ovvio, anzi banale, che quel lettore, sapendone di più,
trarrebbe anche maggior piacere dalla lettura (il riferimento a
Barthes è del tutto casuale).
Di
nuovo, quale sarebbe la quantità “giusta” di codeste competenze?
Possiamo
leggere Dante solo perché i suoi versi e le vicende che narra
(soprattutto nella prima cantica!) ci affascinano, senza conoscere la
Farsaglia di Lucano, le Metamorfosi di Ovidio, l'Eneide
di Virgilio, le opere di Tommaso d'Aquino, di Alberto Magno, di
Brunetto Latini? E dove lo mettiamo Paolo Orosio? E Alfragano?
Se
poi ci troviamo a sprofondare nell'Ulisse di Joyce, rischiamo
di smarrire completamente le coordinate. L'irredentismo irlandese? La
cultura cattolica? La cultura ebraica (ashkenazi)? Le opere di
Shakespeare? La cartografia di Dublino? I classici latini?
L'esoterismo cialtrone del XIX Secolo? Dante? Et cetera?!
Cominciamo
già a domandarci “ma chi me lo fa fare?”, ma c'è qualcosa di
peggio, pronto a percuoterci sullo scozzetto (come dice il mio amico
Nando) ovvero sulla dura cervice (come dice la Bibbia).
È
terribile, ma tra noi e l'opus
magnum di Joyce si
erge uno spettro, o meglio, un doppelgänger che ci guarda dallo
specchio (con espressione oserei dire schernevole).
È
il Lettore Genetico!
In un saggio riguardante il metodo genetico, scritto insieme a Michael Groden, Daniel Ferrar sottolinea come questo approccio interpretativo sia coerente con uno dei pensieri fissi dello stesso modernismo, cioè la sua ripulsa per la teleologia: “posporre la conclusione inerente al testo scritto caratterizza la moderna preferenza per le potenzialità e i processi in corso rispetto all'opera d'arte compiuta. La pratica corrente della critica genetica certamente è un prodotto della medesima tendenza moderna e postmoderna...”Basandosi sul concetto di lettore ideale concepito da Umberto Eco, Jean-Michel Rabaté ha delineato un “lettore genetico ideale”, inteso come qualcuno che si avvicina al testo fornito di una “radicale storicizzazione di tutte le possibili strategie interpretative, accoppiata a una storia materiale, altrettanto storicizzata, della produzione testuale.”
(…) [L]a critica genetica tratta l'opera letteraria come intrinsecamente instabile, mutevole e in continua evoluzione. Piuttosto che affidarsi alla definitiva versione stampata di un testo, trattandolo come un oggetto immodificabile e ufficializzato [authoritative] [1], la critica genetica segue il processo di produzione del manoscritto, mutando la percezione, l'approccio e la comprensione del testo nel suo evolversi. (Marian Eide - Ethical Joyce - Cambridge University Press 2002, pag.115) [Traduzione mia]
Abbiate
pietà! Il testo di Joyce (anche a prescindere da Finnegans Wake)
è più che un'opera aperta, è un'opera spalancata:
praticamente ogni giorno si scoprono nuovi riferimenti, nuove fonti,
nuovo materiale genetico relativo alla scrittura joyciana!
Intendiamoci.
Non
esiste prodotto dell'ingegno umano che sia privo di contesto.
Se
ignoriamo che, ai tempi di Dante, circolava la leggenda che Maometto
fosse stato in origine un vescovo che, deluso per non essere stato
fatto papa, creò per ripicca una nuova religione, non capiremmo come
mai lo troviamo nel girone degli scismatici.
Inoltre,
più un'opera è distante (temporalmente e/o culturalmente) da noi,
più informazioni ci servono per leggerla.
Il
fattore linguistico, certo, è cruciale.
Da
parte mia non ho dubbi che la traduzione di Celati sia meno
“aderente”, ma più scorrevole e musicale delle altre, ma come
giudicare, se non si padroneggia la lingua dell'originale? Per fare
un esempio, una traduzione diversa mi ha fatto letteralmente
idolatrare un romanzo come Il Maestro e Margherita, che in
precedenza avevo giudicato un'opera pretenziosa ma modesta.
Ma,
ammesso tutto ciò, la lettura genetica crea grossi (e onerosi)
problemi.
Il proclama pubblicato sul n.16-17 (giugno 1929) della rivista modernista transition, con l'emblematico "the plain reader be damned" ("all'inferno il lettore comune") fonte immagine: The British Library
Quando
io e te parliamo di Guerra e Pace, sappiamo, grosso modo, qual
è l'oggetto della discussione: è difficile che l'edizione che hai
letto tu sia fondamentalmente diversa da quella che ho letto io (a
meno che non si parli di qualche rara versione censurata, che so,
nelle parti di filosofia della storia).
Ma
se parliamo dell'Ulisse, di che parliamo? Sarà la versione
“popolare” Penguin o quella Gabler? E perché considerare solo
quelle? In definitiva, le versioni dell'Ulisse possono essere
innumerevoli. Le differenze non saranno poi così importanti, ma come
saperlo se non le leggiamo tutte? Un critico o un filologo possono
dedicare la vita a tali interrogativi, ma la nostra, di vita, può
bastare? Soprattutto se abbiamo intenzione di leggere altri libri
oltre a quelli di Joyce? Quante “versioni” di un testo vengono
salvate sul laptop di qualsiasi scrittore?
Può
esistere, oltre al lettore genetico (o ideale), che sa “tutto”,
un lettore accettabile che si limita a sapere “abbastanza”?
La
risposta è scontata.
[1]
Authoritative è un termine che implica qualcosa di più
impositivo della parola italiana autorevole.
Vedi
anche il trauma giovanile di Carmelo Bene, la prolusione
di Domenico Cammarota, e le mie prime
considerazioni (e le terze).
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