di Domenico D'Amico
La
tecnica del “flusso di coscienza” (streaming
of consciousness) è
la pietra d'inciampo che amareggia tanti (aspiranti) lettori
dell'Ulisse
di Joyce.
Eppure,
la sua “immediatezza”, quella che tanto stregava Carmelo Bene,
dovrebbe sortire, casomai, l'effetto contrario: un inedito,
rinfrescante senso di veridicità, soprattutto rispetto al
ridondante, magniloquente psicologismo del grande romanzo
ottocentesco.
Da
una parte, è innegabile che questa impostazione descrittiva
renderebbe impossibile (ad esempio) un monologo come quello di Ivan
Karamazov. Ma è anche vero che l'accavallarsi delle associazioni
freudiane debella qualsiasi profondità, e la cosa (è questo il
bello), è tutt'altro che “realistica”.
La
mente umana è normalissimamente capace di prolungata e densa
meditazione; il joyciano ribollire di immagini, ricordi, pensieri e
desideri, è tutt'altro
che naturalistico. È il modo “modernista” di rappresentarsi la
persona umana. I personaggi non fanno che enunciare (e pensare)
banalità. Esempio:
Cuore spezzato. Alla fin fine una pompa, che pompa migliaia di galloni di sangue al giorno. Un bel giorno si ottura ed eccoti qua. Ce n’è una montagna a giacere in giro da queste parti: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe rugginose: all’inferno tutto il resto. La resurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto. La storia dell’ultimo giorno. Buttarli tutti fuori dalle proprie tombe. Vieni fuori, Lazzaro. Ma lui venne ai fori e finì male. Svegliati! È l’ultimo giorno. E allora via ognuno in giro alla ricerca del proprio fegato o dei polmoni e di tutta la roba che gli serve. Ritrovare ogni stramaledetta parte di sé in quel mattino. Un pennyweight di polvere in un teschio. Un pennyweight dieci grammi. Misura del sistema troy.
Inoltre,
il flusso di pensieri e meccaniche reazioni agli stimoli esterni fa
sì che non ci siano zone d'ombra ignote alla coscienza dei
personaggi. Quindi non ci possono essere né ambiguità né
contraddizione.
ché
sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla.
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla.
(Purgatorio
V, 16-18)
È
paradossale. Il flusso di coscienza deve molto alle teorie freudiane,
eppure nella sua “immediatezza” non evoca nessuna doppiezza,
nessuna ambiguità, nessun conflitto. Nell'affabulazione tutto è
uguale, tutto è in superficie, nulla è latente, nascosto. Il
narratore (che continua a esistere, pur fluttuante e intermittente)
non può mai ritrovarsi in contraddizione con se stesso (come, per
dire, in Dostoevskij), perché è interamente risolto in quello che
gli passa per la testa, consiste nel continuum di quello che
dice e quello che pensa (anzi, quel che gli accade di
pensare). Non c'è spazio per l'ignoto, per il novum. Ogni percezione
viene subitamente associata a ricordi, similitudini, considerazioni
più o meno banali. Non c'è un evento, un incontro, un'apparizione,
che ammutoliscano il narratore. Nessun mistero, nessun Unheimlich...
Simbolismi
e metafore sono anch'essi posticci, ciechi, inani. Se Dante dispiega
elementi di geografia astronomica, essi sono consequenziali e
narrativamente essenziali. Se lo fa Joyce (“Una stella precipitata
in gran velocità apparente attraverso il firmamento da Vega nella
Lira sopra lo zenit oltre il gruppo di stelle della Chioma di
Berenice verso il segno zodiacale del Leone”), la cosa è del tutto
indifferente, potrebbe essere un'altra costellazione, un altro
quadrante, e la cosa sarebbe del tutto ininfluente.
E
difatti, solo nel
capitolo “catechistico” (Itaca),
dove la tecnica del flusso di coscienza è al regime minimo (proprio
prima di schiacciare il pedale col successivo, il finale di Molly),
veniamo a sapere davvero qualcosa di Bloom, delle sue idee, delle sue
aspirazioni, dei suoi progetti consolatori prima di andare a letto:
le
righe del capitolo 17 che descrivono le fantasie
arcadico-imprenditoriali di Bloom sono forse l'unica parte
emotivamente coinvolgente (benevola pietà) del romanzo. Il migliore:
“Un progetto per
l’utilizzo di carri trainati da cani e capre per la consegna del
latte la mattina presto.” C'è anche un sogno alla Montecristo: “Da
allora, scomparendo dalla costellazione della Corona Boreale in
qualche modo sarebbe ricomparso rinato sopra il delta della
costellazione di Cassiopea per tornare dopo peregrinazioni di
incalcolabili eoni alieno vendicatore, giustiziere dei malfattori, un
crociato nero, un dormiente svegliato, con risorse finanziarie (si
suppone) superiori a quelle di Rothschild...” Praticamente è il
protagonista di Gankutsuou!
Che
Bloom acquisti spessore solo al diciassettesimo capitolo non è
incidentale, direi anzi che è il vettore interno del romanzo.
Mi
spiego.
Abbiamo
già osservato come la forma letteraria del flusso di coscienza usata
da Joyce sia pesantemente derivata da Freud, e già questo è
significativo. Il susseguirsi di associazioni di idee e frammenti di
ricordi è, per Freud, un fenomeno superficiale, privo di
collegamenti diretti con l'inconscio. Dal punto di vista narrativo,
intendo nel modo in cui Joyce utilizza questa tecnica, il flusso di
coscienza offre alla vista un'immagine drasticamente epidermica dei
personaggi. Ripeto, non si tratta per nulla di una questione di
“realismo”: qualsiasi persona è perfettamente in grado di
riflettere, meditare, concepire processi mentali paragonabili (sempre
parlando di letteratura) a un capitolo dei Fratelli Karamazov.
Su
questo mi permetto di insistere.
L'idea
che il flusso di coscienza risulti da una specie di mortificazione
del modello epico, convogliato nella cloaca della meschina
quotidianità dublinese, insomma che costituisca “la
radicalizzazione joyciana della narrazione realista”, è
fuorviante.
Il
verbo, l'atto del pensare,
sia nelle lingue romanze sia nella lingua inglese, implica non solo
una mera attività mentale (cogito),
ma anche (in inglese direi soprattutto) un atto di discriminazione,
di cernita (puto).
Penso (I
think...),
cioè ritengo, credo, stimo, giudico. Più che di realismo, si
dovrebbe parlare di estrema stilizzazione.
Non
si tratta qui di mettere avanti una concezione ingenua del “realismo”
letterario, come se si potesse misurare la vicinanza del racconto a
una realtà empirica, qualsiasi essa sia. Una finzione dalla forma
documentaristica resta comunque una finzione. Il problema è che
l'immediatezza joyciana, che tanto aveva colpito Carmelo Bene, non
riesce a svolgere il suo ruolo, pretende
soltanto di farlo, il che nuoce alla sua funzione di sostegno, di
intelaiatura per la sovrastante (anch'essa pretesa) struttura
simbolica.
Di
nuovo, e infine, è quasi fatale che il personaggio Bloom acquisti
una qualche consistenza (sempre relativamente, si capisce) solo nel
capitolo 17, dove la tecnica del flusso di coscienza è
praticamente assente.
Vedi anche Carmelo Bene, Cammarota, e ancora e ancora. E infine.
Vedi anche Carmelo Bene, Cammarota, e ancora e ancora. E infine.
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