lunedì 10 settembre 2018

Giobbe, Toni, Ivan e la Dolce Vita

di Domenico D'Amico

I Morti, 2000


Non mi sono chiesto perché Toni Negri si sia interessato a Giobbe (Antonio Negri, Il Lavoro di Giobbe, SugarCo 1990), dato che tutti si sono interessati a Giobbe e, vuoi o non vuoi, nel campo intellettuale Negri è un soggetto di vaglia: niente di strano che voglia dire la sua. Più interessanti le motivazioni che espone, inusualmente terra terra: le cose vanno malissimo, la vita fa schifo, interroghiamoci insieme a Giobbe sull'insensatezza del cosmo, hai visto mai che venga fuori qualcosa di inedito... Toh, il lavoro! La creazione! Il Messia! Cthulhu fhtagn!

Ora, il presupposto di Negri, che Giobbe deprivi la razionalità del suo potere operativo, in quanto il giusto si ritrova immerso in una situazione totalmente priva di senso (di senso categorizzabile, descrivibile), data l'impossibilità di individuare una dialettica tra termini ultimativamente sproporzionati (Giobbe e Dio), questo presupposto, a mio avviso, è totalmente errato.
È vero che Giobbe descrive in lungo e in largo una realtà che non solo è in contrasto con la teodicea “ortodossa” dei suoi amici (Dio premia i giusti e castiga gli empi, e se il giusto soffre è solo una cosa temporanea, egli si pentirà dei propri peccati e Dio lo colmerà di ogni bene, spirituale e materiale), ma la vanifica totalmente: non è che Dio sia cattivo, e si sia messo a premiare i malvagi e a vessare i giusti, no, le cose stanno peggio ancora, empi e pii ricevono grazie e disgrazie in maniera totalmente casuale, in assenza di un sistema sanzionatorio riconoscibile. È come se Dio non esistesse.
Ma Giobbe grida al non senso del mondo non per descriverlo, ma per contestarlo. Non abbandona la ragione (etica) in quanto resa obsoleta da un cosmo insensato e a-dialettico, al contrario, egli invoca un ristabilimento di una legalità “razionale”, vedendola come unica sua possibilità di salvezza: smettila di punirmi preventivamente (illegalità), smettila di nascondere gli eventuali indizi a mio carico (illegalità), non impedirmi di starti davanti come querelante di diritto (illegalità), insomma, rendi “ragionevole” (legale, rispondente cioè a norme condivise e comprensibili) questo procedimento contro di me, e io confido di poter dimostrare la mia innocenza. È vero che Giobbe dispera di poter ottenere giustizia, dato che nessun terzo può fare da arbitro tra lui e Dio, perché Dio è legislatore, giudice, testimone e carnefice, e non lo si può costringere a essere “giusto”, perché è lui a stabilire quello che è giusto, ma questa consapevolezza non lo fa desistere: schiacciato, come un Joseph K, da una giustizia insensata e senza forma, continua a chiedere che gli sia concesso di difendersi in un regolare processo (habeas corpus: Giobbe è un liberale ante litteram?).
Del resto, anche l'affermazione secondo cui una dialettica Giobbe-Dio sia fondamentalmente impossibile anzi, vista l'incommensurabilità dei due termini, insensata, anche questa osservazione di Negri è, di nuovo a mio avviso, totalmente errata. Dice Negri che una dialettica che può avere come esito non il superamento della contraddizione ma la distruzione di uno dei termini (in questo caso Giobbe, umano infinitamente piccolo di fronte all'infinitamente grande), si consegna all'insensato. Ma è lui stesso a osservare come Dio non abbia senso senza coorti di angeli che gli sfilano davanti, senza un satana che gli propone scommesse, e, soprattutto, senza esseri umani che lo adorino. E sottolinea anche (Negri) che Dio insiste più di una volta sulla necessità che Giobbe rimanga in vita, e si capisce: se Giobbe muore la scommessa con il satana non ha più senso, ma soprattutto non ci sarebbe più nessuno ad assistere all'epifania di Dio. Se non c'è l'essere umano a contemplare e a meravigliarsi delle sue opere, Dio perde la sua identità, magari anche la propria esistenza.
Quindi la dialettica Dio-Giobbe sussiste, eccome, proprio perché l'opzione di annichilimento di uno dei termini (Giobbe) non si pone.
E qui Negri introduce la parola “lavoro”, che sembrerebbe avere qualcosa a che fare con il “valore”, in qualche modo collegato alla teodicea retributiva (Dio premia i virtuosi e castiga i peccatori) degli amici di Giobbe, ed essendo quest'ultima falsa ne consegue anche che il “lavoro” è una cosa brutta. Ma, e ce lo aspettavamo, questo termine assume la solita, postmoderna, polimorficità. È il lavoro maledizione inflitta ad Adamo, una metafora della condizione umana (“i suoi giorni si snodano come quelli di un cottimista”), ma anche “avventura prometeica dell'uomo” (pag.106).
Negri si chiede, a questo punto, come liberare il lavoro (qualsiasi cosa ciò significhi), e indica la soluzione in un Messia della carne, della creaturalità, invocato dalle tante interiezioni “viscerali” di Giobbe.
Ora, il fatto che questi richiami al Messia-Incarnazione abbiano un pedigree autorevole non ne sminuisce l'abusività. L'invocazione per un giudice terzo, un Vendicatore, scusate se mi ripeto, sono la forma con cui Giobbe esige un ordine etico razionale che redima il difetto dell'attuale ordine retributivo (sballato e insensato). Se il continuo richiamo alla fisicità carnale di Giobbe ha un senso, è proprio questo: se non c'è giustizia per me, per questo corpo devastato ed esausto, per le sofferenze inflitte ai lavoratori, alla vedova e all'orfano, allora non c'è senso, Dio non ha senso (o, si potrebbe dire, esistenza). Di nuovo, Negri sbaglia nel voler vedere in tutto questo un approdo “altro” che lascia dietro di sé la ragione, uno schema retributivo e quant'altro. Se fosse così, andrebbe bene la soluzione prospettata in qualche punto dagli amici di Giobbe (soprattutto Elihu): vabbè, sembrerebbe che Dio non sia molto conseguente (eticamente razionale) nel premiare i giusti e punire gli empi, ma insomma, lui sa quello che fa, tu invece a che titolo vuoi contendere con lui, hai messo tu limiti agli oceani eccetera? È un espediente della teodicea che a tutt'oggi, nonostante le randellate ricevute, non si decide a emettere l'ultimo respiro. Il male? È un mistero, va' a sapere come ragiona Dio!
Negri non vede questa esigenza di razionalità etica (banalmente, di giustizia) perché è un postmoderno (anche se lui lo negherebbe), e quindi, deleuzianamente, qualsiasi cosa possa interpretare come un superamento-dismissione-allontanamento dalla ragione (o da qualcosa che gli somigli, anche solo vagamente) gli sembra positivo. Se fosse coerente con la premessa, la parabola di Giobbe dovrebbe approdare all'accettazione del totale non senso: non c'è giustizia, la sofferenza dei giusti è casuale e insensata, nessuno comanda, decide, retribuisce, non c'è dio. E non sarebbe una conclusione ingiustificata (non più dei richiami messianici di tanti interpreti del testo): in fondo Giobbe pencola molto verso il Qohelet, i suoi accenni a una nuova vita, a una resurrezione della carne, sono protocollari, è evidente che la sua concezione dello sheol è quella dell'ebraismo primitivo, una specie di aldilà appena abbozzato, un buco di cui si sa poco e niente. Questa posizione non ha nulla di religioso, tanto meno di mistico o di messianico. È una posizione pragmatica: Dio ti dice di fare certe cose (fare sacrifici a lui, aiutare i poveri eccetera), se lo fai prospererai, se no languirai e morirai. Tu scopri che le cose non vanno affatto così, e così ti ribelli, chiedi conto a Dio del suo comportamento. È impossibile, assurdo? Non ha importanza, perché non hai scelta. Lo schema retributivo razionale (eticamente) deve esistere, altrimenti... Altrimenti cosa? In realtà tutti i dettagli che affascinano Negri (la vacuità della retribuzione, Dio che ride delle sfortune degli uomini, l'impossibilità di un giudice terzo, eccetera) sono evocati da Giobbe solo come contrasto alla sua sicurezza di potersi dimostrare innocente. Giobbe non si distacca, non emigra, non va oltre la ragione distributiva, dice anzi: o la giustizia (razionale, comprensibile, condivisibile) o il nulla. Il richiamo messianico è solo retorica: ah, magari ci fosse un giudice terzo! Ah, magari potessi un giorno vivere di nuovo! Ah, magari ci fosse per me un vendicatore!
Ma siccome siamo “destrutturalisti” dobbiamo per forza superare la banalissima ragione, anche se non con la dialettica meschina “degli Hegel o degli Schelling” (pag.108), che è comunque paccottiglia razionalistica!
A questo punto un Messia è d'obbligo, ma di che si tratti non possiamo dire, perché Negri è Negri, e i concetti linguistici e metafisici si fanno fluidi e rizomatici, tutto è niente e niente è tutto. Non sorprende che il libro si concluda con un elogio degli apici dell'affabulazione post-strutturalista:
Deleuze-Guattari, nel loro formidabile «Mille Plateaux», descrivono esattamente le dinamiche che seguono la crisi metafisica (di superamento, della dialettica) nella modernità. Il limite superiore del mondo, l'assunta impossibilità di trascendimento, aprono orizzonti indefiniti, canali di scorrimento massicci. Il metodo e il processo, il rizoma e il flusso divengono le chiavi di un discorso sulla modernità. Nessuna presunzione di cogliere immanenti costituzioni della soggettività: ma, d'altra parte, il sempre nuovo riproporsi di insiemi, di limiti, di ritornelli dell'essere, di nodi di cooperazione e di espressione, che – disincarnati – sul limite, sull'incrocio, nella costellazione ritrovano carne – oggettivati, nella tragedia ritrovano determinazione soggettiva.” (pag.157)

Come si vede, lo spostamento e il superamento sono valori in sé: un po' come i personaggi di Kerouac, il filosofo sente l'impulso di spostarsi, di stare sul margine, di cavalcare il flusso, proiettato verso un “it” totalmente privo di connotati, probabilmente solo sognato (o allucinato).

Come dicevo all'inizio, non mi sono chiesto come mai Toni Negri si interessasse a Giobbe, ma piuttosto (cedendo alle mie idiosincrasie, lo ammetto): perché Giobbe e non Ivan Karamazov?
L'interrogativo può sembrare pretestuoso: non lo è.
Tra le tante cose che il discorso di Ivan (contenuto nei capitoli III e IV del Libro Quinto dei Fratelli Karamazov) è e può essere, c'è anche il suo aspetto di “risposta a Giobbe”. Ivan fa letteralmente tabula rasa di qualsiasi teodicea, razionalistica o misticheggiante che sia, non confutandola ma rendendola umanamente indecente. Non a caso, nessuno è riuscito a dare una “risposta a Ivan”, se non rifugiandosi nel Mistero o aggrappandosi di nuovo a qualche brandello di teodicea, o semplicemente fraintendendo il suo discorso (di solito ricorrendo al trucco di concentrarsi sulla Leggenda del Grande Inquisitore, facendo finta che il resto non esista).
Il fatto è che il discorso di Ivan riesce davvero a sfondare i limiti del linguaggio e della razionalità, non virtualmente come nel chiacchiericcio post-strutturalista, e quindi ci sarebbe ben poco carburante per una macchina desiderante (con alla guida un corpo senza organi), qui Dostoevskij va oltre Giobbe, e oltre c'è solo il nulla.

Non sorprende, perciò, che si discuta di Giobbe e non di Ivan. Il dolore di Giobbe, essendo “socializzabile” (pag.132), offre una via di redenzione agli esseri umani, preconizza un Messia che può essere anche marxiano, mentre la ribellione di Ivan non apre a nessuna forma di riscatto.
La potenza è istaurata nel dolore, è potenza del non essere, è potenza della comunità – un'essenza inconclusa entro un processo indefinitivamente creativo.” (pag.133)

Cos'è questa, se non l'ennesima teodicea che vuole rendere la sofferenza “comprensibile”? Negri cavalca l'onda che porta lontano dalla ragione e dal senso, solo per imboccare, attraverso la porta del messianismo, la strada della vecchia sofferenza “istruttiva”, anche se con termini più barocchi. Bel paradosso.
Inoltre, Negri non accenna minimamente all'osservazione che farebbe Ivan: ah, certo, Giobbe viene restituito alla sua antica prosperità, tante greggi, tanti figli, tre figlie (naturalmente bellissime), e un pacco di soldi... E quelli di prima, i guardiani, i dipendenti di Giobbe massacrati nelle razzie? I poveri armenti periti in disastri mirati (dal satana scommettitore)? Tutta la prole sterminata (ah, queste case fatte col cemento della mafia!)? Quelle tre figlie, altrettanto belle, altrettanto virtuose, sono morte ingiustamente o no?
Sono domande ingenue e anacronistiche, certo, e allora? Ivan direbbe che nessuna ricchezza, nessuna figliolanza, nessun nuovo bestiame potranno mai compensare gli operai, i figli, le bestie sterminate ingiustamente. La redenzione è impossibile, anzi peggio, inaccettabile. Negri ha sacrosantamente ragione a sottolineare il carattere decisivo della visione diretta di Dio da parte di Giobbe. Questo cambia tutto, certo.
In peggio.
Giobbe conosce Dio faccia a faccia, e nell'interpretazione di Negri arriva a essere tutt'uno con la stessa Creazione (una conoscenza assoluta che significa diventare la cosa conosciuta). Ma questo non cancella l'ingiustizia. Quei morti, quel dolore restano irriscattabili.
Al posto di Giobbe, Ivan avrebbe detto:
Ti ho conosciuto faccia a faccia,
e ora taccio, mi copro di cenere e mi pento delle mie parole,
riconosco la tua gloria e la tua grandezza,
ma lasciami nella mia miseria, alle mie piaghe,
all'irrisione dei monelli,
non voglio armenti, non voglio pezzi d'oro, non voglio altri figli e figlie.
E ti volgo le spalle.
Ti ho visto, e ora distolgo da te il mio sguardo.”

Perché, come dice Lear:
Perché deve
Aver vita un cavallo, un cane, un topo,
E tu neanche un respiro? Tu non ritornerai,
Mai più, mai più, mai più, mai più, mai più.”


Annotazione poco seria:

Dio si manifesta direttamente a Giobbe, e tra le sue sublimi creazioni gli indica il Leviatano, mostro marino di proporzioni enormi, e dice, sarcasticamente (40, 30-31):
Lo metteranno in vendita le compagnie di pesca,
se lo divideranno i commercianti?
Crivellerai di dardi la sua pelle
e con la fiocina la sua testa?

Insomma, Yahweh non ha letto Moby Dick.

Annotazione più che seria:

Giobbe, di solito, viene considerato un giusto per default, infatti tutte le speculazioni e discussioni e interpretazioni partono dal dato di fatto che Giobbe sia un virtuoso che soffre ingiustamente e che per questo chiede ragione a Dio. Elifaz insinua che Giobbe si meriti le sue sventure per atti malvagi commessi in prima persona, e non come uomo genericamente peccatore al cospetto di Dio (22, 6-9), ma si presume che lo dica per eccesso di zelo teologico.
E tuttavia, c'è un momento in cui Giobbe (che aiuta i poveri, le vedove, che si comporta con equità perfino coi suoi schiavi) nomina una categoria di persone che sembra escludere dalla sua pietà (30, 1-10):
Ora invece si ridono di me
i più giovani di me in età,
i cui padri non avrei degnato
di mettere tra i cani del mio gregge.
Anche la forza delle loro mani a che mi giova?
Hanno perduto ogni vigore;
disfatti dalla indigenza e dalla fame,
brucano per l'arido deserto,
da lungo tempo regione desolata,
raccogliendo l'erba salsa accanto ai cespugli
e radici di ginestra per loro cibo.
Cacciati via dal consorzio umano,
a loro si grida dietro come al ladro;
sì che dimorano in valli orrende,
nelle caverne della terra e nelle rupi.
In mezzo alle macchie urlano
e sotto i roveti si adunano;
razza ignobile, anzi razza senza nome,
sono calpestati più della terra.
Ora io sono la loro canzone,
sono diventato la loro favola!
Hanno orrore di me e mi schivano
e non si astengono dallo sputarmi in faccia!

Chi sono questi reietti? Sono contadini e allevatori che si sono indebitati e si sono “dati alla macchia” per evitare il peggio. Come dice David Graeber nel suo Debito, I Primi 5000 Anni (pag.92):
Sembra che l’economia dei regni ebraici, al tempo dei profeti, cominciasse a sviluppare le stesse crisi del debito, da tempo frequenti in Mesopotamia: specialmente negli anni del cattivo raccolto, il povero si indebitava con il ricco o con i ricchi prestatori di denaro della città, che iniziavano a togliere loro il titolo di proprietà sulla terra, divenendone proprietari, mentre i loro figli e figlie venivano portati via a integrare la servitù nelle abitazioni dei creditori, o per essere addirittura venduti come schiavi.

Da queste situazioni insanabili (come il debito greco) derivò l'idea del Giubileo.
Quello che è curioso, però, è che Giobbe, che altrove nel testo deplora la situazione dei lavoratori sfruttati, dei poveri, degli orfani, delle vedove, non abbia che parole di disgusto verso questi paria fiscali (magari lui era uno dei suddetti prestatori), ma ancora di più stupisce che i post-strutturalisti di sinistra (foucaultiani o meno), con le loro simpatie metafisiche per il marginale, l'outcast, il delinquente, abbiano ignorato questo lumpenproletariat biblico.

1 commento:

  1. Gan bel post! Mi sento comunque di osservare che nella copiosa produzione di Negri "Il Lavoro di Giobbe" rappresenta, insieme a "La Lenta Ginestra", una perla, da diversi punti di vista. Sono lavori che hanno il pregio comunque di innestare splendidamente nella critica letteraria la sensibilità operaista in cui ci siamo beatamente crogiolati per un buon decennio. Saluti Dom.

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