Recensione di Federica De Felice
“Spinoza rosso sangue” (di Franco Cilli e Domenico D’Amico) è un testo che sembra scritto dopodomani. Un romanzo che necessita di tempo e di pazienza. Libri che trattano Spinoza da diversi punti di vista ce ne sono tanti, ma questo è unico nel suo genere per svariati motivi. Il primo è che di Spinoza, dello Spinoza storico, il filosofo del Seicento del Deus sive Natura c’è ben poco (qualche fugace accenno ad alcune vicende biografiche come la morte dell’amico Adriaan Koerbagh o l’assassinio di Johann de Witt). Dopo un centinaio di pagine ci si rende conto che lo Spinoza del titolo è semplicemente un prestanome, sì, un espediente narrativo di cui si servono “il gatto e la volpe”, come si definiscono gli autori stessi, per parlare di tutt’altro. E come Spinoza, tutti i personaggi che si incontrano nel testo, sono altro, sono echi di identità tanto reali quanto evanescenti, la cui storia si perde nella notte dei tempi. E qui ci imbattiamo già nella prima difficoltà, ossia come inquadrare un libro del genere: ci sono elementi e personaggi di fantascienza (s’incontrano vampiri, streghe, theda, figlie di Aradia, homunculi, mulierculae, lamassu, vuk), le cui vite si raccontano e si snodano tra vicissitudine di carattere storico-politico, descritti con dovizia di particolari medico- scientifici e con un’attenzione quasi chirurgica agli stati d’animo dei personaggi, così come agli spazi urbani, interni ed esterni. E allora, se da un lato sarebbe legittimo includerlo nel genere fantasy (tra la fantascienza e la fantapolitica), dall’altro si troverebbe spiazzato un lettore rigoroso di questo genere a sfogliare un volume di questo tipo. Forse potrebbe essere definito un fanta-romanzo o anche un finto-romanzo, nel senso più veritativo del termine, ossia un romanzo che suggerisce una verità (mai esplicitamente detta) attraverso la sua finzione. Allora per capire qualcosa di questo romanzo bisogna leggerlo al contrario, ossia partendo da ciò che non dice perché è lì che, in qualche modo, si trova – forse – la risposta alla domanda: perché leggere questo libro e che cosa vuole dire? Ma andiamo per ordine.
La trama è apparentemente semplice e si legge nella sinossi data nella quarta della copertina: l’intero pianeta è prossimo a un’apocalisse e sembra vivere una fase di radicale trasformazione politico-sociale. Angel Tzara, il primo Presidente del Consiglio italiano di origine rumena, scopre di avere un ruolo primario in questa metamorfosi globale. Si ritrova non solo ad affrontare i propri avversari politici, annidati all’interno del suo stesso partito, ma anche a decidere se farsi manipolare dalle forze che, dietro le quinte, operano per mutare il destino della razza umana. Cospirazioni e intenzionalità occulte si alternano, intrecciandosi su piani spazio-temporali sincronici e diacronici. Streghe millenarie che si impongono utilizzando non la magia ma la loro avanzatissima conoscenza scientifica, vampiri che oscillano tra il desiderio di farsi classe media e gli antichi splendori di un’aristocrazia sanguinaria. Intrighi e omicidi si accavallano e il tutto è legato all’evento che fa da sfondo a tutti i movimenti cospirativi: l’elezione di un nuovo pontefice, che sarà, chissà, un uomo o meglio una strega in abiti maschili. Così Angel Tzara, leader europeo in pectore, deve scegliere se farsi carico, insieme al nuovo Papa, delle sorti del mondo oppure no. Sullo sfondo di questo arsenale di forze e lotte sanguinose e violente – sia interne che esterne – ecco che compare la figura di Baruch Spinoza, che nell’ epoca dei fatti narrati assume l’identità dell’ideologo rivoluzionario Toni Negri, il «cattivo maestro» degli anni di piombo, il quale, come tutti i personaggi del libro, non rappresenta sé stesso, bensì un vampiro plurisecolare che ha vissuto in diverse epoche e diverse realtà. Se Spinoza/Negri non sono ciò che sono, ma espressioni di altro, anche Tzara non è (soltanto) un uomo (italiano di adozione) che vive un momento storico particolare. Tzara potrebbe essere il nuovo Messia, che tuttavia, contrariamente a quanto ci si immaginerebbe, è “uomo senza qualità che si ritrova protagonista di eventi straordinari senza averli cercati, senza averli compresi” (p. 192), un uomo senza infamia e senza lode, “gettato” – per usare un termine caro ad Heidegger – in un mondo di cui gli sfugge tutto, di cui non capisce l’orizzonte di senso, perché le cose che gli accadono sembrano buone e male, anzi sembrano essere “al di là del bene e del male”. Patti tra la Chiesa universale e divinità plurisecolari si rinnovano e si sfibrano sotto la crescente potenza di questo grande progetto che riguarda il mondo intero, cui tutti gli agenti sono chiamati, ma di cui nessuno è protagonista né eroe. Gli agenti delle cospirazioni (streghe, ninfe, entità femminili che esistono da sempre sotto mentite spoglie) si dicono operanti per un bene superiore. Ma cosa vuol dire bene? è possibile perseguire un bene utilizzando la paura come mezzo per mantenere stabili e sicuri i rapporti umani e non? Perchè questo è ciò che fanno queste creature per avere il dominio sul pianeta. Come nuovi Leviathan di hobbesiana memoria (ma al femminile) che impongono il proprio potere in silenzio attraverso il terrore. E ancora, come e fino a che punto ci si può fidare di queste voci sempre più ibridate con l’umano che dicono di cambiare le sorti e il futuro dell’umanità? Il parallelismo con il mondo dell’intelligenza artificiale è quasi d’0bbligo: non è forse questo universo vampirico equivalente alla comunità tecnocratica che oggi ha il monopolio del sapere e del potere? Ora, più che la particolarità e le peripezie dei vari personaggi (umani e non) e delle loro azioni, raccontati magistralmente dagli autori, quello che più colpisce di questo racconto è la tensione tanto radicale quanto sfiancante di elementi opposti verso una qualche unità, una sorta di dialettica aperta che non lascia spazio a derimenti e rassicuranti conclusioni. Si registra una radicale dicotomia in ogni aspetto della narrazione. Le categorie di opposti di cui, volenti o nolenti, un lettore si serve per capire e dare un senso al racconto (umano/non umano; leggenda/storia; buono/cattivo; carne/spirito; materialità/spiritualità; reale/irreale) svaporano sotto il flusso impietoso del divenire che non lascia spazio (e neanche tempo) ad alcuna verità assoluta. In fondo lo stesso statuto ontologico del “vampiro” non né quello legato a un certo immaginario collettivo, perché “le figure leggendarie nascono, mutano, scompaiono come le specie viventi… nel corso del tempo reale e immaginario si sono influenzati a vicenda” (p. 43) e “in un futuro non molto lontano umani e non si considereranno membri di un’unica famiglia” (p. 268). Ancora una volta l’idea profetica di un futuro prossimo che vede la necessaria convivenza e co-evoluzione tra umani e macchine, robot, umanoidi ecc. sembra ormai una realtà imminente.
Non so se fosse questa l’intenzione degli autori, ma in fondo questo è il bello della lettura, perché apre a riflessioni che vanno al di là (o al di qua) del testo stesso.
Lo stesso registro linguistico oscilla tra una narrazione scarna, diretta, prosaico – con finanche elementi popolari e dialettali – e un linguaggio aulico, allegorico, ricco di dettagli e di sfumature che solo menti attente e sensibili saprebbero usare con tanta disinvoltura.
Pagina dopo pagina si assiste a un andirivieni continuo tra discorsi diretti e indiretti, soliloqui introspettivi e dialoghi fluidi, con intermezzi fatti di “botta e risposta” in cui echeggiano palesemente discorsi realmente vissuti tra gli autori (“due cialtroni… due stolti, ma la loro era una stoltezza pura” p. 276), amici di vecchia data che si conoscono così bene da prendersi in giro, morire ed essere diversi da quelli che sono. Morendo cade la maschera di D’Amico, e si scopre che anche lui è “una tigre Bianca. Una figlia di Aradia” (p. 295).
Leggendo il testo si avverte un’osmosi incessante tra presente e futuro, tra fatti inventati e realtà storica, tra dimensione privata e quella pubblica. Si ricostruiscono i momenti topici della storia mondiale: l’Italia di Cavour, la guerra in Cecenia, la politica di Stalin passando per la denuncia dello sfruttamento del popolo rumeno. Si avverte l’evidente intreccio tra Chiesa e Stato, ma il discorso non scivola mai sul terreno di un riduttivismo fazioso, ma si limita a fare da sfondo ai rapporti e alle cospirazioni che si susseguono durante la narrazione.
Le scene d’azioni sono descritte con un climax narrativo che apre all’immaginario senza mai cadere nel disgusto dell’orrorifico o nella retorica della lotta tra bene e male. La descrizione dei personaggi segue questa ambivalenza: le donne-cardinali e Fathma, personaggio-chiave del libro, vengono definite “immagini sublimi e terrificanti” (p. 107) e si avverte un certo femminismo – nel senso più alto del termine – nelle parole degli autori.
E allora torniamo alla domanda fondamentale: Perché leggere quasi 400 pagine di un genere così di nicchia e per molti aspetti non di facile lettura? Semplice. Perché introietta nel lettore una dose elevata di sano e sacrosanto dubbio, quell’ars dubitandi che, stando a Cartesio, è ciò che ci rende davvero superiori a qualsiasi altra forma vivente. Il dubbio che le cose non sempre sono come sembrano, che l’apparenza, per quanto perfetta e coerente, può ingannare. E anche qui il pensiero vola all’IA, a quella coincidenza (ingannevole) tra correttezza sintattica e verità semantica, che ci fa credere acriticamente in ciò che ci inganna perché ormai siamo diventati sempre più incapaci di dubitare, sempre più narcotizzati da bisogni indotti a bella posta per renderci sempre più schiavi. E allora questo testo è un modo per risvegliarci, per farci riflettere su quello che siamo o pensiamo di essere. Ci interroga, attraverso i dubbi e le incertezze di Angel Tzara, sulle grandi questioni filosofiche: la realtà è un insieme di casualità o è frutto di una necessità che trascende la nostra comprensione? La vita è caos o c’è un ordine, un cosmos che soggiace al tutto? L’uomo è vittima o artefice della storia che vive? Torna quella dicotomia che innerva tutto il romanzo. E sebbene non si dia risposta, il fatto che ci si affidi all’ebreo-olandese Spinoza (o chi per lui) per capire come stanno le cose, forse è già una chiave di lettura, se, come scrivono gli autori, “Come spesso accade, si comprende solo ciò che, su un altro piano, si è sempre saputo” (p. 162).
Il punto è che di ciò che accade non esiste un unico modo di vedere le cose. Le cose sono definite da ciò che le definisce (“Quello che per alcuni è una rinascita, per altri è l’Armageddon”, p. 78). Anzi, non è possibile avere contezza di ciò che accade, perché le cose trascendono sempre, ne siamo consapevoli o non, il piano della comprensione.
Nessuno di noi, seppur mosso dalle più nobili intenzioni, è ciò che vuole essere, ma piuttosto ciò che deve essere, come Angel Tzara che: “fa quello che fa perché è così che deve essere” (p.195). Ogni soggetto è il risultato di forze che lo precedono e di cui esso/ella o egli è solo il “portanome reale”.
E tuttavia, proprio questo rende ognuno di noi in qualche modo responsabile di ciò che è e soprattutto ciò che fa perché in quella catena infinita di cui non si sa nulla, né l’inizio né tantomeno la fine, il semplice fatto che occupiamo proprio quel posto, hic et nunc, ci rende inevitabilmente, ineluttabilmente unici e di questo sì che possiamo farci carico per capire,
per quanto possibile, la traiettoria storica che ci è dato percorrere, migliorando le relazioni che costituiscono la vera forza di questa trama che è la Vita.
E allora forse, quel titolo così potente, Spinoza rosso sangue, in fondo un senso lo ha.
Perché il filosofo è proprio questo che ci insegna: che tutto è relazione e che da questa dobbiamo partire per fondare quel brandello di identità in cui convergono quegli universi paralleli e sovrapposti nel quale da sempre siamo immersi.
Come ha scritto Kurt Vonnegut in Madre notte: “Noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere". Il monito a farci carico dell’apparenza, anch’essa, se vogliamo, di spinoziana memoria, è pià che doveroso, specie oggi che viviamo in un’epoca di “finte” apparenze che nulla rivelano perché nessuna
verità vi è sottesa.
Doveroso, sì, perché come concludono gli autori, riprendendo il celebre passo di Orazio, “Omnes una manet nox”.