martedì 27 marzo 2018

Mesopotamia, Mon Amour

di Domenico D'Amico

Il Ritorno di Ullikummi, 1992




«Quello è un topo» disse Monica, con calma.
«Così grosso?» disse Leo.
In nessun luogo del sistema solare, su nessuno dei satelliti o dei pianeti, esisteva una creatura così enorme e orrenda.
«Che cosa ci farà?» chiese, domandandosi per quale motivo la bambina non avesse paura.
«Oh» disse Monica «Suppongo che ci ucciderà.»

Philip K. Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch 


Quale splendore è Sarai! Fini chiome inanellate,
occhi lucenti, naso perfetto, radiosa la luce del suo volto!
Quanto colmi i suoi seni, come divine le sue braccia,
come delicate le sue mani, come belli i suoi piedi nei sandali, quanto ammirevoli e tornite le sue cosce!
Di tutte le vergini e spose che avanzano sotto il baldacchino nessuna può competere con Sarai:
la donna più vaga sotto il dolce cielo.
Sublime nella sua bellezza
ma più di ogni altra è saggia e prudente,
con grazia muove le mani.

C'è un luogo, alla radice della città, detto Apshu. Interminabili scalinate sprofondano in un pozzo immenso. Pilastri di fluido bluastro, come gelatina tremolante, emergono dal profondo. Il melammu, nella sua forma primaria, guizza e crepita. Le bestie imprigionate nelle fenditure uggiolano e singhiozzano. Nessun lullu è mai sceso laggiù, e mai lo farà. Ma se ci scendesse, forse gli ricorderebbe le acque in cui si è cullato, al sicuro, prima di essere gettato in un'esistenza a termine. Meglio, la paura lo ucciderebbe. L'Apshu è ventre, e fuori del ventre. Io non sono un lullu, non mi ha generato una donna. Andare laggiù mi dà solo fastidio. Scendere tutti quei gradini, tra le rozze sculture e i lamenti delle bestie. Niente di peggio da scegliere, come posto di comando. A me, l'Apshu ricorda una fogna.

Giunsi alla fine delle scale. Lì, le rampe si avvicinavano al centro del pozzo, congiungendosi alla base della piattaforma di cristallo dalla quale Enki governava il suo matu. Era come una giostra. Le colonne a tortiglione reggevano una volta a padiglione esagonale, diafano intarsio di marmi colorati, e all'interno un guazzabuglio di paraventi laccati, stendardi di seta sbiadita, terminali di controllo d'oro massiccio, e suppellettili malaccozzate, di legno, di marmo e di plastica. La giostra era sostenuta dall'incrocio delle colonne di gelatina blu, un canestro che manteneva il trono di Enki sospeso sopra il vortice abissale del ventre lacustre della terra.
Una figura larga e pallida giaceva semisdraiata su una colossale ottomana. Riconobbi Enki dalle emanazioni del suo melammu. Aveva assunto l'aspetto di un gigante obeso. Deciso a rendere la mia visita la più breve possibile, mi avvicinai a lunghi passi. Feci la genuflessione protocollare e rimasi in attesa. Lo sguardo di Enki era vacuo. Una ragazzina, nuda e piena di gioielli, gli stava succhiando il membro numinoso. Dissimulai la mia impazienza. Gli incensieri, sospesi ad altezza d'uomo dalle lunghe catene che li univano alla volta, ammorbavano l'aria.

Pazuzu Velato, 1993

«Dovresti essere più sollecito, quando il tuo dio ti chiama».
Gli occhi grigi che mi irridevano non erano quelli di un lullu.
«Shauska, mia signora... Il vostro melammu era così sommesso che vi avevo scambiata per una figlia della terra».
La ragazzina si alzò in piedi. Enki non batté ciglio. Rimase lì, la faccia assorta e il pene rigido.
«Questo non può non dispiacerci. Noi contiamo sulla tua acutezza» disse scuotendosi tutta. Produsse un rumore di sonagli.
«Sarebbe una virtù, ai vostri occhi» dissi «se nemmeno la vostra regalità ne fosse al riparo?»
«Sarebbe un vizio se avessimo motivo di dubitare della tua fedeltà...» Colse il mio sguardo verso Enki.
«Il tuo signore non può subire distrazioni» disse.
«Tranne la più deliziosa di esse».
«Insubordinato come sempre, Helel».
«Il vostro rimprovero è la mia delizia, Shauska, mia signora».
«Dovremmo dire al tuo signore di farti disperdere nel vento».
«Il vostro castigo è il mio godimento».
«Ma un consigliere come te è infinitamente prezioso. Visto che trai piacere dai rimproveri, sarà nostra cura lodarti incessantemente».
«Cosa vale un mio capriccio, di fronte ai vostri desideri?»
Con un dito Shauska fece oscillare i campanellini che le pendevano dai capezzoli.
«Si tratta di una questione delicata» disse «il regno è in pericolo».
«Mi permetto di osservare» dissi in tono cordiale «che in questo caso una riunione dell'intero puchrum sarebbe la cosa più indicata».
«In questo momento gli altri anunnaki sono assenti».
«Tutti? Anu, Enlil, Damkina?»
«Tutti».
«Anche Teshub?»
«È già all'opera per rimediare alle nostre difficoltà».
«In questo caso...»
«Ma esse richiedono un'azione decisa e discreta anche qui, nel matu».
Accennai a Enki:
«Cos'ha?»
Shauska si distese su un'agrippina di marmo nero, e protese verso di me un piede nudo e ingioiellato.
«Il tuo signore Enki» proferì soavemente «è giunto alla pienezza del ricordo: ogni nuovo pensiero ne scaccia uno vecchio. Ne consegue la necessità di essere selettivi nel dargli notizie del matu. Ce ne occupiamo noi...»
«La mia signora Shauska, ora, governa».
«Come sei acido, Helel...»
Mi accarezzò la guancia con la punta dell'alluce.
«Il mio compito è servire...» dissi baciandole il piede «Di che natura è questa... emergenza?»
La carne di Shauska cominciò a incresparsi, a pulsare, le ossa a rimescolarsi. I gioielli si dissolsero nelle onde iridescenti della sua pelle. Ora somigliava a una delle statue che l'onoravano nei templi della città. Un corpo d'oro lucente, una corazza d'argento intorno al busto, l'elmo d'acciaio. Al fianco, la spada a due tagli che beve le anime. Si avvicinò a uno dei terminali di controllo. Il suo tono da melodioso si fece secco e raschiante:
«Guarda.»
Lo schermo mostrava un sesso femminile.
«È un sesso femminile» dissi incolore.
«Nient'altro?»
«È un'ancella di Ninatta. Una musicante».
Difatti, un anello con due smeraldi ornava le piccole labbra.
«Ebbene?» articolò Shauska.
«È un sesso un po' angusto, direi...»
«E come mai?»
«Il mondo è bello perché è vario...»
Uno schiaffo d'oro massiccio mi colpì le labbra:
«Osserva la forchetta vulvare, idiota!»
Mi chinai verso lo schermo, per testimoniare la massima attenzione. La commessura posteriore delle piccole labbra presentava una leggerissima aderenza, un accenno di saldatura.
«Sembrerebbe quasi...» cominciai, nella parte dello studente volenteroso.
«Sì?»
«Sembrerebbe quasi che questa vagina stia cominciando a chiudersi, a partire dal basso».
«Esatto. E ora guarda».
La vagina si ingrandì fino a occupare tutto lo schermo, poi le si sovrappose uno schema ben noto: la valle del regno, il matu di Enki.
Recitai:
«Sì, il matu del signore Enki è la fertile vallata della Grande Madre...»
Stavolta fu un piede metallico a colpirmi.
«Risparmiami queste cazzate! Cosa c'è qui?»
Indicò sulla carta del regno la zona corrispondente alla piccola aderenza dell'ancella.
E io dissi:
«Ullikummi».



Retorica, 1993

Un tempo migliore, si dice. Quando il mondo era giovane. Quando niente, né mari né montagne, né bestie né uomini, niente era ancora stato creato (questa è la favola che i lullu si raccontano).
Tiamat, la Grande Madre, si preparava alla resa dei conti contro le nuove generazioni di dèi. I suoi figli e nipoti erano troppo dinamici, per i suoi gusti. Investì allora dello splendore del potere il giovane Kingu, un ambizioso outsider, e gli affidò la potentissima Tavoletta dei Destini. Per adiuvarlo nel conflitto imminente, scodellò una terrificante parata di mostriciattoli: enormi serpenti grondanti veleno, chimere dagli aculei di bronzo, cani urlanti, bisonti, draghi, idre e quant'altro. Dotandoli (e questo era imperdonabile) dello splendore divino, il melammu.
L'assemblea degli dèi, il puchrum, stigmatizzò la perversa illegalità di quelle operazioni pre-belliche. Inviò allora uno della seconda generazione, Anu, perché intimasse a Tiamat una resa incondizionata. Ma Anu tornò con la coda tra le gambe (la mamma è sempre la mamma, anche se è la mamma della propria mamma). Si affidò l'incarico a Enki, ma anche se allora non si compiaceva di fare l'obeso catatonico, e fosse invece un giovane gagliardo e abile, signore delle tecniche, pure lui tornò senza niente in mano. Il mandato quindi pervenne a Teshub, figlio di Enki, un ragazzo dagli occhi rossi estremamente svelto nel manipolare le tempeste. Teshub si sobbarcò l'onere e l'onore dell'impresa, in vista dei vantaggi gerarchici che gli si prospettavano, ma pretese un'investitura diretta, solenne e unanime da parte dell'intero puchrum. Il suo melammu ne risultò grandemente rafforzato.
Tuttavia, il nuovo sposo di Tiamat, Kingu, aveva la Tavoletta dei Destini, il Tup Shimatì, ed eliminarlo era virtualmente impossibile. Quando Teshub cercò di colpire Kingu con una freccia, l'azione del Tup Shimatì fece tornare il dardo alle vene metalliche da cui proveniva, e l'arco alla foresta di origine, dove ridivenne il ramo in cui era stato scolpito. Non potendo influenzare la Tavoletta dei Destini, Teshub colpì la volontà che la guidava. Un terrificante uragano innervato di folgori si abbattè su Kingu. Accecato, continuava a ripetere:
«I miei occhi! I miei occhi!»
Per Teshub fu facile strappargli il Tup Shimatì e ucciderlo. Così si compì il destino della vasta e inerte Tiamat (secondo la favola, del suo cadavere si fecero valli e fiumi, esseri viventi e acque sotterranee). Quanto ai mostri, erano carne da cannone, e furono destinati, catena al collo, a fare la guardia agli spazi sacri. Per questa vittoria, Teshub fu acclamato primo fra gli dèi.
Ma il sospiro di sollievo degli anunnaki fu interrotto dalla piccola sorpresa postuma di Tiamat: il parto di Ullikummi, il gigante di perfido porfido. La sua azione sconcertò quei giovani scavezzacollo. Non consisteva in una strategia di aggressione diretta. Ullikummi, semplicemente, si espandeva. Con la sua massa minacciava di schiacciare tutti i domini degli dèi. Stavolta Enki non si lasciò sfuggire l'occasione di fare bella figura (e di avere una fetta della torta del nuovo ordine): ideò un'arma di acciaio eutettoide, una spada ricurva dotata della proprietà di far collassare la materia che veniva in contatto col suo filo. Tagliare un capello o fare accartocciare una montagna: questione di tecnica. E in questa, Enki era insuperabile. Troncò la testa (o i piedi) di Ullikummi, bloccandone la crescita. Per sempre, si sarebbe detto. Ma ora, dopo tanto tempo, la pace che gli anunnaki si godevano nel loro orticello stava per spezzarsi, irrimediabilmente.
Ullikummi era grosso, duro. E si era svegliato.

«Ullikummi è vivo. E cresce».
«Vedo» dissi guardingo.
«Volevi chiedermi: che rapporto c'è tra l'ancella e Ullikummi?»
«Un rapporto di similarità? La vulva di questa musicante è un'icona efficace della valle di Enki? C'è qualcuno all'opera dietro tutto questo? Qualcuno capace di servirsi dell'Arte?»
«Vedo che capisci al volo» disse Shauska, sprezzante «è magia dei vecchi tempi. Sei il nostro maliku. Per questo ti ho fatto chiamare».
«La mia signora sa di certo che, in linea di principio, una magia per similarità è semplice da annullare: la roccia minaccia di schiacciare il nostro matu così come il sesso di quest'ancella si sta chiudendo. Perciò basterebbe invertire il processo in uno dei due termini perché la stessa cosa avvenga anche nell'altro...»
«Che brillante suggerimento!»
«...Anche se l'autore di quest'Opera sarebbe un vero incompetente, se non avesse preso le dovute precauzioni».
«Bravo, Helel! Abbiamo praticato già due operazioni chirurgiche che non hanno avuto nessun effetto durevole».
«Ed è ancora viva?»
«Che vuoi dire?»
«La mia signora Shauska, lo so bene, è un'intenditrice di simili operazioni, e molto spesso le figlie della terra non sopravvivono...»
Lei sputò da un lato una specie di espettorazione argentea:
«Non siamo a una festa, idiota! Certo che è viva! Ma il suo ventre, per quanto divaricato, continua sempre a chiudersi...»
«Forse bisogna mantenerlo in uno stato di costante divaricazione».
«In questo caso, lo strumento che la invade tende a disfarsi: a volte si liquefa a volte si sbriciola».
«In questo caso, mia signora, non resta che affidarsi alla potenza del signore Teshub».
«Ti ho già detto che se ne sta occupando!»
«Dunque, mia signora, siamo in buone mani...»
«Sei una iena che si nutre delle proprie viscere! Teshub non ha una nozione esatta dell'uso di quella specie di falce calibiana: l'unico che ce l'ha» e non guardò affatto il suo immobile consorte «in questo momento non potrebbe impugnarla come fece un tempo.»
In questo momento e per sempre, pensai.
«Tuttavia» dissi «la mia fiducia nel signore delle tempeste è incrollabile».
«Ipocrita! Dobbiamo agire su tutti i fronti!»
«Quali, mia signora?»
«Tre, stupido! Teshub direttamente sul gigante di porfido, io sull'ancella per trovare il sistema di sdrucirla, e tu...»
«Io, mia signora...?»
«Tu, fetida carogna, cercherai l'autore di questo intollerabile atto di sovversione!»
«È un compito molto arduo».
«Adatto a un individuo doppio e subdolo come te, Helel» mi sorrise «E ora fuori dai coglioni e sali su a fare il tuo lavoro!»
I suoi denti erano diamanti.
Nuovamente ragazzina, tornò a dedicarsi al pene del suo subli me sposo. Ero congedato. Risalendo per le interminabili rampe dell'Apshu, non potevo trattenermi dallo sfregare le mani una contro l'altra, eccitato. Che Shauska tentasse di fregarmi era una lusinga per le mie attitudini che non potevo assolutamente respingere.
Riemerso in superficie, salii su un montacarichi, e arrivato sul primo terrazzamento presi un ciclotassì, facendomi portare agli Archivi. Il cielo dell'alba era completamente privo di nubi. Le guardie armate mi salutarono, irrigidite. I vestiti violacei degli archivisti si inchinarono di fronte al mio completo nero. Salii fino al Centro dei Centri. Di lì, il piano più alto dell'edificio più alto del terrazzamento più alto, attraverso una vasta finestra rettangolare, si poteva vedere l'altipiano nel quale era stato scavato il matu di Enki.
Un deserto dove non c'è nessuno.
Rivolsi lo sguardo ai miei assistenti. Alacri, andavano e venivano, incrociandosi tra le colonne trilobate di plastica gialla. Riaggregavano i dati sulla distribuzione delle derrate, sciocchezze del genere.
«Preparate l'intubazione» dissi «voglio consultare il Verbatim.»
Diedero energia all'ordigno, ennesimo capolavoro di Enki. Una specie di noce di metallo, alta come un uomo, che racchiudeva cervello vivente in formazione lamellare. A un'estremità del guscio la saldatura delle valve scopriva un orifizio gommoso che, man mano che l'energia affluiva, cominciò a emettere fiotti di saliva brunastra. Mi tolsi il soprabito, la giacca, e mi arrotolai la manica destra della camicia color antracite. Cinsi l'avambraccio nudo di un complicato intreccio di filatteri neri. Era un rituale assolutamente gratuito, ma faceva colpo sui miei sottoposti.
«Intùbo» dissi, e infilai il braccio nell'orifizio, fino al gomito.
Gli strati di tessuto cerebrale disposti come le frittatine di un timballo, erano solo il supporto inerte dell'ordigno informatico: le connessioni erano costituite da un organismo parassitario, geneticamente stabilizzato, che innervava l'intero sistema. Le terminazioni del parassita mi si incollarono alla pelle, nella speranza di succhiare da me un qualche nutrimento. Vennero invece agganciate dalla mia rete neurale. Mi ritrovai di fronte l'icona congruente della città. Il Verbatim. Cominciai a percorrerla, dentro e fuori. Terrazzamenti, pozzi, templi, vicoli ed edifici. Tutto era perfettamente normale. Il solito vivacchiare dei lullu. Ma di colpo, il mio punto di vista si ritrovò impigliato in un vettore inaudito. Procedetti a folle velocità lungo le rampe dei livelli inferiori, frugando vertiginosamente tra le vasche che raccoglievano i rifiuti della città. Il volo si arrestò davanti a una figura di donna.
Stava nuda, immersa fino alle ginocchia negli escrementi, i capelli raccolti in una fascia. Guardò verso di me, e questo era impossibile. I suoi occhi erano neri. Poi alzò la testa, e mi indicò la sommità del matu. Il mio punto di vista si dilatò di nuovo, e vidi che dalla cima della città, dall'edificio degli Archivi, prorompe va un getto luminescente che cominciava a riversarsi sui terrazzamenti. Era sangue. Con uno strattone liberai il braccio. Mi ritrovai nel Centro dei Centri.
«Stupido pasticcio di carne!» dissi.
I miei collaboratori facevano finta di niente. Le mie scarpe facevano cic ciac sulla saliva del Verbatim. Ordinai di ripulire, cosa che fecero con compassata dignità. Sapevano benissimo che se avessero provato loro, a intubare, il parassita li avrebbe divorati senza nemmeno degnarsi di risputare gli ossicini. Ma loro, così orgogliosi di appartenere alla più pura delle caste, non si sarebbero mai sognati di guardare con stupore o invidia nessuno, nemmeno il malikili.
Patetico.
Gli impiegati di raccordo erano contenti di non avere tutte le responsabilità dei loro superiori, ma facevano i galletti coi coordinatori di informazione, i quali se ne consolavano pensando alla loro relativa libertà di movimen to rispetto agli impiegati, che potevano comunque guardare dall'alto in basso tutti i cittadini comuni. E via e via. Solo la casta più bassa non poteva rivalersi con nessuno. Ma quelli erano troppo rintontoliti dai miasmi dei lieviti per apprezzare le delizie dello spirito. Peccato, perché se la punta dello ziggurat erano gli archivi, la base erano i lieviti, che fornivano energia a tutta la città.
Io sono uno dei pochi che abbiano una conoscenza meno che superficiale delle duemila e quattrocento caste del matu di Enki. Perfino i miei fidi archivisti, per la loro supponenza, disdegnano di esaminare a fondo l'articolazione della città, loro che ne regolano la vita, orgogliosi delle loro competenze settoriali. Io no. Io ho visto nascere le caste. Ho contribuito alla pianificazione. Società metafisica. Così in cielo così in terra.
L'idea non è stata mia, ma l'ho perfezionata con miglioramenti come il codice dei tre colori. Creare una corrispondenza tra gli attributi dei tre grandi dèi della seconda generazione, Anu, Enlil, Enki, e il singolo ruolo della singola casta. Grandioso. Un colore dominante e due secondari. Gradevole. Autoevidenza della casta. Efficiente. E apprezzo in egual misura l'irrefrenabile tendenza al caos che domina i lullu. Immerso nel mercato del primo terrazzamento, mi godevo i frutti della loro creatività. Pavimentatori all'opera, col fazzolettone arancio in testa e i lacci viola e nero sulle braccia nude. I ricamatori, col grembiule rosso sangue e la collottola metà bianca metà verde. Le venditrici di specifici taumaturgici, colla loro gellaba grigia e il velo rosa acceso sulla testa e blu acciaio sul petto. E via e via.
Passavo indisturbato, tra grida e richiami. Tutti facevano del loro meglio per ignorare la mia figura nera. Se incontravano i miei occhi, abbassavano la testa in un inchino che arrivava quasi al selciato. Qualche lullu metteva al sicuro le figlie adolescenti. Credevano che fossi un dio. Ognuno ha gli dèi che si merita. Ai pidocchi, cani. Le donne grigie decantavano i loro elisir, i loro amuleti. Erano l'ultimo residuo di un'Arte perduta per sempre. E se non lo erano, perché Ullikummi si muoveva? Sempre ammesso che fosse vero: le gole alle estremità del matu di Enki erano fuori del controllo visivo degli Archivi. Avrei dovuto controllare di persona. Gettai un'occhiata all'orpello sincretistico delle protezioni contro il male: icone di ogni tipo a nome Nergal, Baal Zabub, Arimane, Samaél, Yblis, Tiphon... Nessun lullu sapeva esattamente cosa indicassero quei nomi, ma questo non aveva nulla a che fare con la loro efficacia, peraltro nulla. Il brulicare del suk era sovrastato dalla cuspide del palazzo degli Archivi. La casta preposta al la razionale regolazione della vita economica e sociale di tutto il matu aveva ai suoi piedi le attività frutto della corruzione dei funzionari. Mercato nero di merci sottratte alla loro destinazione. Stimolanti ed euforizzanti. Letteratura proibita. Chirurghi abusivi coi loro organi di dubbia provenienza. Spettacoli di sangue, prostituzione di sangue, giochi di sangue.
Oh, noi permetteremo loro anche il peccato: sono così fragili e impotenti; e loro ci vorranno bene come bambini, per il fatto che noi permetteremo loro di peccare.
Solo, non c'erano armi. I bambini, spesso, fanno i cattivi. I miei sensi erano tesi e taglienti. Quello che cercavo era in qualche modo correlato con il suk? L'odore e il colore dei lullu, il cuoio, il ferro caldo, e mele, albicocche, pesche, cotogne, limoni, cedri, arance, basilico, mirto, gelsomini, carne fresca, mandorle, pepe, paglia, ambra grigia, carta bruciata, circuiti surriscaldati, asfalto molle, escrementi, sangue... E in effetti c'era qualcosa. Ma non lì. Non lì, e nemmeno nel resto del matu. Qualcosa di assente. Qualcosa che suggeriva il possibile avvento di una grande quiete. Un'ondulazione indistinta, senza centro. Oppure, non c'era forse l'ombra di un'inclinazione, di una predilezione? I miei occhi incontrarono altri occhi. Neri. Lo squagliamelma di un pavimentatore, imperizia o scarsa manutenzione, esplose. Fui scaraventato contro un bancone di crostacei. Mi rimisi in piedi in meno di un secondo, tra astici in ambascia e tubi fluo rescenti che crepitavano spezzandosi. Lei stava già scappando. Chi ci sogna crea spesso di queste corrispondenze. Cominciai a correre. Lei era molto veloce. Giovane. Soffiai, sputando, e risi. Si infilò nei vicoli della parte sud del terrazzamento (lì la plastica bianca delle case è così vecchia da cadere in polvere). Conosceva il posto, ma perse ugualmente terreno. Se ne accorse e si fermò. Mi fermai anch'io, a circa cinque passi da lei. La fissai, tranquillamente. Lei, ansimando, probabilmente si domandava perché non le saltavo addosso, perché il mio respiro era perfettamente regolare, perché la fissavo... Visto che era stata lei ad agganciarmi, decisi che era compito suo rompere il ghiaccio. Mi stava puntando contro un'arma automatica.
Evitai di riderle in faccia. La canna della pistola a impulsi era millimetricamente allineata col mio cuore. O, per meglio dire, con la mia regione anatomica in cui lei riteneva fosse situato un mio organo vitale di una certa importanza. Attesi che il suo respiro tornasse normale. Era vestita di verde chiaro, ma non indossava i colori secondari. Illegale. Comunque, i piedi nudi macchiati di escrementi la identificavano come una pattumaia. Lavoratrice di un terrazzamento molto inferiore a quello. Il velo lasciava scoperti solo quegli occhi neri... Per un attimo sospettai potesse essere uno degli anunnaki. Ma dopo che Shauska era riuscita a nascondermi il suo melammu, mi ero imposto di essere particolarmente ricettivo. No, non era un dio, ma un lullu. Era una rimestatrice di sterco della parte più bassa del matu. Una pattumaia con la pistola.
«L'ancella.»
Nonostante le sopracciglia a sesto acuto, che le davano un'aria di perpetuo sbalordimento, il tono era duro e controllato. Sorrisi educatamente:
«Prego?»
«Abbiamo bisogno di lei».
«Ah, avete bisogno».
«Tu sai del suo legame con Ullikummi!» La sua era una constatazione «Tu sai che cosa sta succedendo, tu sei il malikili».
«Io so sempre quello che sta succedendo. Puoi dire lo stesso, tu?»
Ignorò il mio fine sarcasmo:
«E allora sai perché la vogliamo.»
«L'ancella...»
«L'ancella!» Finsi di riflettere, poi dissi:
«Se volevi parlarmi, perché ti ho dovuto inseguire?»
«C'è troppa folla, nel suk.»
Senza smettere il mio sorriso, mi protesi verso di lei. Ci sono ancora canzoni che esaltano la mia abilità, fraintendendola, però: mi prendono per una specie di baro, ma io amo il gioco per il gioco. Oh, vecchio El! Un attimo prima mi puntava contro una pistola, e l'attimo appresso si ritrovava spalle al muro, disarmata, la mia sinistra intorno al collo. Saggiamente, non tirò calci o cose del genere.
«Teoria e prassi della teocrazia castale» disse, un po' ingorgata dalla mia stretta «l'hai scritto tu, sei dalla nostra parte!»
«Oh, sono dalla vostra parte? E, se la mia indiscrezione non ferisce eccessivamente la tua sensibilità, dalla parte di chi?»
«Di chi vuole spazzare via Enki e le sue caste...» rantolò.
Stavolta non potei trattenermi. Sghignazzai:
«Interessante, come programma minimo. Molto grazioso anche il tuo metodo per reclutarmi».
«Seguiamo le linee del tuo libro!»
«Ma che spasso! Lasciate che i lullu vengano a me!»
«Non chiamarci lullu! Noi... abbiamo un grande rispetto per te!»
Le liberai il collo. Aderii contro di lei. Le scoprii il volto.
«Puzzi di merda» le sussurrai «è un odore che mi ricorda la mia giovinezza...»
Lei sostenne il mio sguardo, inflessibile. La baciai, e ancora mi guardava. La mia lingua, come un serpente di cartapecora, le violò la chiostra dei denti. Le alzai la veste, entrai in lei. La luce del cielo era viola. Continuò a fissarmi con odio, emettendo dal naso suoni taglienti, le labbra sbiancate. Infine, mi sputò in faccia. Questo mi portò all'orgasmo. Strofinai il volto contro la sua gellaba.

Danza, 1993


«Il vostro proposito di impadronirvi della ragazza è ridicolo. Impedireste agli anunnaki di fermare Ullikummi: e allora? Nessuno può sapere quale sia il suo ritmo di crescita. Potrebbe stritolare il matu di Enki in una settimana, in un mese, in un anno. E quale sarebbe il vantaggio? Presumo che il vostro intento sia liberare il popolo da una sanguinaria e secolare oppressione da parte di una cricca di degenerati... Ma se Ullikummi si muove, il popolo sarà carne trita».
«Così in cielo così in terra. È il terzo capitolo del tuo libro. L'ordine castale è costruito specularmente a un ordine gerarchico ultraterreno. Distruggere l'ordine metafisico significa minare l'ordine materiale. Ullikummi metterà in fuga Enki e Shauska, e anche gli altri anunnaki saranno impotenti! Il loro ordine sarà distrutto. Poi penseremo a fermare il gigante di porfido, con il tuo aiuto».
«La tua esegesi dei miei scritti è alquanto zoppicante. Il mio era un divertissement destinato al mercato nero. Eliminare la giustificazione trascendente delle caste non implica la loro scomparsa. Voi lullu le avete dentro di voi, scolpite nell'anima. Scommetto che tu e gli altri merdaioli siete infinitamente orgogliosi di fornire la materia prima per la produzione di energia, e che guardate gli addetti ai lieviti, che dipendono dai vostri rifornimenti, come se fossero cani morti...»
«Tu ci chiami lullu, ma non lo siamo. Possiamo essere migliori dei nostri dèi. Possiamo essere migliori di te».
La piccola mescita era quasi deserta. I fiaschi di ippocrasso, nelle loro reti di corda, oscillavano al venticello pomeridiano. Guardai giù. I terrazzamenti si perdevano nel buio della valle.
«Come ti chiami?»
«Zuleika».
Fuori del velo, i suoi capelli erano magnifici. Neri, ondulati, e l'aria aggiungeva onde alle onde. Il manto inanellato che incatena i re.
Dissi:
«Un tempo, molto tempo fa, prima che questi bambini si costruissero i loro castelli di sabbia, ho amato qualcuno. Aveva i tuoi occhi... Io vi chiamo lullu perché lo siete. Feti. Esseri non ancora formati. I vostri dèi non vi chiamano in nessun modo, così come non attribuiscono nomi ai pidocchi dei loro cani».
Il suo sguardo era furioso, ma senza odio:
«Ti credi superiore agli anunnaki, ma ragioni come loro. Non siamo pidocchi, e non siamo più feti. E se tu ci aiuti, i cani si nutriranno dei loro padroni».
Ridacchiai:
«In quanti siete, voi... sovversivi?»
«Posso radunare duecento donne e uomini armati».
«Davvero un cane ha più pidocchi» dissi, tirando fuori la sua pistola «e armati con cose come questa?»
Non attesi la risposta:
«Vi procurerò io qualcosa di più efficiente. Eseguirete le mie direttive alla lettera.»
«Non ci userai» disse lei «per una tua congiura personale contro gli anunnaki, vero?»
«Tu che dici? Sono tipo da simili doppiezze?»
Zuleika fece spallucce, e mi guardò con onesta curiosità.
«Tu sei molto vecchio» disse «molto più vecchio di tutti loro... Perché li servi?»
«Perché è indifferente».
«Qual è il tuo vero nome?»
Sorrisi:
«Io non ho nome. Ora mi chiamano Helel ben Shahar, e sono il malikili, il consigliere degli dèi. Ma tu, se vuoi, chiamami pure Yblis».
E poi, fu forse l'età, o i fantasmi del passato, ebbi un attimo di debolezza. Le accarezzai i capelli con le dita a pettine.
Non toccate le figlie degli uomini!
Oh, El!



Una valle chiusa da altissime pareti di roccia, con solo due varchi a sud e a nord, è l'ideale per il controllo dei sottoposti. Gli anunnaki l'avevano scavata proprio per quello. Sarebbe stato mio privilegio usare un mezzo aereo, ma la discrezione mi suggerì qualcosa di più ordinario. Superare non visto le fortificazioni della gola sud fu facile. Arrivare in vista di Ullikummi, meno. Le vibrazioni basse intimidirono il mio mulo. Si bloccò, rigido come un giocattolo, svuotò gli intestini e rimase pervicacemente indifferente alla mia autorità. Mi avviai a piedi, deliziato dagli sbuffi di polvere luccicante che mi venivano incontro.
Dopo un'ora, lo vidi. Avanzava come un ghiacciaio. Accrescimento cristallino. Protendeva le sue dita esagonali, le conficcava nella roccia della gola, poi le facce dei cristalli generavano altri cristalli, fino a produrre una selva spessa, sempre più spessa, che più compatta si faceva più si protendeva in avanti per occupare altro spazio. Ullikummi era rumoroso. Oltre al rombo tellurico del suo corpo strisciante, c'erano gli schianti e le esplosioni della roccia che si spaccava, il tonfo dei macigni, gli scrosci del sassame, il ciottolio dei frammenti più pic coli e il cigolio incessante dei cristalli che si allungavano. Se il matu di Enki era una vulva, Ullikummi non la stava affatto chiudendo, ma violando. Manco a dirlo, Teshub era immerso nel culmine del diluvio mi nerale, e contribuiva con tutte le sue forze a incrementarne il chiasso. Il signore delle tempeste usava il suo potere per tenere sotto controllo la proliferazione di Ullikummi, e nel contempo muoveva in cerchio il falcetto di Enki. Ma era evidente che, nonostante tutta quell'agitazione e il vibrare delle folgori, Ullikummi avanzava. Velocemente. Shauska ovvia mente aveva ragione: Teshub non era in grado di utilizzare a pieno l'arma creata da suo padre. Emisi un sibilo abbastanza acuto da essere udibi le in quel frastuono. Senza smettere di combattere, Teshub mi lanciò un'occhiata. Perse una battuta, poi parve decidersi. Fulmineamente, mi fu davanti.
Alto più di me di un paio di teste, massiccio nella sua armatura scarlatta, i capelli ritti e rugginosi, gli occhi rossi aggrottati, il melammu al massimo della potenza, la spada di Enki in posizione d'attacco e incastrato nel pettorale il Tup Shimatì, la Tavoletta dei Destini, segno della sua preminenza nel puchrum, Teshub sembrava poco disponibile.
«Torna subito dal tuo signore!» tuonò. Mi dava il benvenuto con un congedo.
«Grande è Teshub, Signore delle Tempeste!» uggiolai «Il ruggito del leone e l'urlo del leopardo sono bisbigli...»
Mi voltò le spalle, e si avviò verso Ullikummi.
«Stronzo!»
Sentendosi apostrofato così irrispettosamente da un sottoposto, Teshub invertì il senso di marcia, senza esitare e senza fermarsi. Aveva intenzione di usare il falcetto di Enki. Mi strappai dalla cintura l'emblema solare che faceva da fibbia, e glielo scagliai contro. Come prevedevo, nell'attimo in cui vide partire la stella, Teshub pose mano alla Tavoletta dei Destini. Il Tup Shimatì ha un potere illimitato, che gli anunnaki non comprendono pienamente, avendolo ricevuto in immeritata eredità. Per questo è sempre stato visto più come sigillo di investitura che come arma. L'unico ad averlo usato, una sola volta, era stato Kingu. La Tavoletta dei Destini rendeva irrevocabile la parola del suo possessore. Ma gli anunnaki balbettavano appena. Teshub poteva servirsene per invertire lo status spazio-temporale del suo bersaglio. Adoperare il Tup Shimatì contro Ullikummi, figlio della terra e plasmato, si diceva, con la stessa sostanza del mondo visibile, sarebbe stato considerato folle. Ma contro di me, contro quel pezzetto di metallo... Teshub voleva vederlo retrocedere in disgregazione, voleva vedere le sue particole trapassarmi, prima che tornassero alle loro origini. Quando si accorse che la fibbia non solo non si arrestava, ma proseguiva nella sua traiettoria con ancora maggiore velocità, fece solo in tempo a mettere una mano davanti alla faccia. Il sole d'acciaio gli sfondò il metacarpo, penetrandogli nel cranio. D'istinto, il suo corpo cercò di mutare, adattandosi alla situazione. Ma la stella continuò ad andare avanti e indietro, frugando l'interno di Teshub, finché non ne rimase che un tritume palpitante di minuscoli lampi gialli. Raccolsi la spada di Enki, e annientai la stella, che continuava a girovagare tra le membra sparse. I frammenti di pelle e unghie che avevo sottratto a Teshub molto tempo prima, fusi nel metallo della fibbia, l'avevano costretta a dare una caccia incessante al plasma genetico di origine.
«Una bella magia, non trovi?»
Continuai a colpire i pezzi di Teshub, finché non restò nulla. La Tavoletta dei Destini era sul mio petto, adesso.

Quando demmo battaglia a Og, gli prendemmo tutte le sue città: sessanta, tutte fortificate, con alte mura, porte e sbarre, senza contare le città aperte, che erano molto numerose. Noi le votammo allo sterminio, come avevamo fatto di Sicom, re di Chesbon: votammo allo sterminio ogni città, uomini, donne, bambini. Ma il bestiame e le spoglie delle città li prendemmo per noi, come preda.
Vedo il sangue zampillare dal culmine della città, rovesciarsi irruento sui terrazzamenti, ruscellare giù, fino in fondo alla valle, riempirla, salire fumante fino a sommergere uomini e cose, finché il matu di Enki è un piccolo mare e tutti sono morti, nel sangue.
Oh, El! Non è abbastanza? Non è abbastanza?

Zuleika mi aspettava con i suoi guerrieri. Ragazzine e ragazzini, travestiti da operai del ferro. Un buon auspicio. Si era legata i capelli dietro la testa. Com'erano belli i suoi piedi nei sandali...
Li condussi nei miei depositi personali, sotto il suk. Diedi loro i lanciagranate, i fucili a impulsi, e li istruii velocemente.
Zuleika mi disse:
«La tua faccia è piena di rughe».

C'è un luogo, alla radice della città, detto Apshu. Una fortificazione circolare, affollata di guardiani armati, tutta di pietra color ferro, protegge un pozzo senza fondo. In quel pozzo, perduto nei suoi sogni, Enki governa il suo matu. Ora la sua sposa sta giocando la stessa partita che un giorno aveva decretato la fine dei vecchi dèi. Tocco la Tavoletta dei Destini. Stavolta i guardiani non mi concederanno di scendere nell'Apshu, non senza combattere.
L'aria era carica di melammu. Il colore dei pilastri di gela tina era percorso da venature di luce violacea. Il fumo dei braceri era più greve che mai, e il signore del matu continuava a fissare il nulla. Shauska, troneggiante nel suo fulgore guerriero, era china su un consunto altare sacrificale. Su di esso, immobile, un corpo nudo, sonagli alle ca viglie. L'ancella di Ninatta. Shauska si volse verso di me, alzando la gamba destra e allargando le braccia con fare ospitale. Così la raffiguravano i bassorilievi: la dea che accoglie il guerriero vincitore. I pezzi dell'armatura erano sparsi ai piedi dell'altare: sul corpo nudo e dorato cingeva solo l'elmo e la spada. Le labbra del suo sesso palpitavano. Dicevano fosse dotato di denti. Feci due passi verso di lei. Vidi un grosso scettro di vetro spuntare dal ventre dell'ancella. Molto sangue. Non mi genuflessi.
«Ho fatto quel che volevi» dissi «Teshub è morto».
La sua faccia era davvero quella di una statua:
«Ti avevo ordinato di indagare sulla magia dell'ancella».
«Ho fatto quello che desideravi» ripetei «Eliminato il signore delle tempeste, sarai tu a dettare legge nel puchrum...»
«Sia come tu dici. Ora consegnami la Tavoletta e la falce».
La sua mano d'oro era sull'impugnatura della spada. Guardai verso Enki e la sua stolida erezione:
«Da quanto tempo è così?»
Shauska non rispose. Continuai:
«Ho visto Ullikummi che invece di riempire la valle la divaricava. Viviamo in un sogno. Il sogno di Enki. Non c'è nessuna magia. Noi viviamo in un ventre di donna, aggrappati all'orlo della sua apertura. Enki sta sognando di violarlo, e Ullikummi si è svegliato. L'ancella che lentamente si sigilla non è che il sintomo, invertito di segno, di quel sogno... E quel sogno l'hai generato tu? O ne hai solo approfittato? Non sapevi forse qual era l'unico modo di fermare Ullikummi?»
«Ah, lo scaltro Helel!» ghignò lei «Solo il membro del tuo divino sposo poteva violare il ventre dell'ancella. Il coito avrebbe fatto cessare il sogno. Ma prima aspettavi che io facessi quello in cui tu non saresti mai riuscita, perché sei stupida come tutti gli anunnaki... A proposito, gli altri deucoli sono davvero in missione, come dici tu, o li hai scaraventati giù nel pozzo? Allora? Non mi ringrazi? Il tuo figliastro non lo avresti fregato tanto facilmente!»
Dal riparo dei suoi denti uscirono parole:
«Come vuoi tu, signore degli inganni. E adesso fai quello che ti ho ordinato e ti risparmierò».
Posi anch'io mano alla spada:
«Invece credo che sarò io a uccidervi, tutti e due, e lo scettro del tuo sposo lo terrò come trofeo, tagliato alla radice!»
Shauska mi rise in faccia:
«Tu dici, uomo nero? Non saranno piuttosto le tue orecchie a fare da pasto ai miei cani?»
«Proprio ora» dissi «i tuoi schiavi prendono possesso degli Archivi. Il matu è loro, adesso. Il tuo destino, mia signora Shauska, sarà il destino di tutti gli anunnaki, stupide scimmie che giocano con giochi non loro. Il destino del fumo nell'aria, della schiuma nell'acqua, dell' erba nella fornace. Il destino di un pensiero causale, senza oggetto, apparso per un attimo nella mente e poi subito dissoltosi nel nulla, senza traccia nemmeno nella memoria sommersa che tutto trattiene. E nella mente divina, che contempla ogni granello di sabbia, ogni zampa d'insetto, ogni particella, per quanto piccola, per quanto povera di energia, nella stessa mente divina voi non sarete più».
«Stai per morire, Helel. Non pensare alla Tavoletta, qui. Nell'Apshu è la nostra origine. Nell'Apshu, il Tup Shimatì è solo un pezzo d'argilla con scritta sopra una vecchia litania!»
E con un urlo, lo stesso che agghiacciava le schiere, la dea dell'amore e della strage, la dea che si gettava in ginocchio nel sangue dei soldati, la dea che guazzava sino al collo nel sangue sparso, la dea che combatteva di casa in casa, che delle viscere dei nemici faceva collane, Shauska l'Inesorabile, Shauska Sfacelo delle Ossa, facendo scintillare la spada che beve le anime, mi venne incontro per uccidermi.

Tra i guerrieri dei bei vecchi tempi l'arte della spada richiedeva misura, azione, scelta del tempo, velocità... Ma questi dèi non avevano mai apprezzato i formalismi, visto che per loro era indifferente che l'avversario da abbattere avesse gambe, zampe, radici o fondamenta. Cosa importava, a Shauska, di finte e angolazioni, quando aveva nel braccio la potenza di una valanga e la velocità di un fulmine? Pensai alla Tavoletta. Usare il suo vero potere. Librarmi sopra una colonna di magma incandescente, annichilire la valle, rivoltare l'Apshu come un guanto... Pensai a Zuleika. Ai suoi occhi. Alle sue... persone. Impugnai la falce. Shauska mi venne direttamente addosso, calando la spada come una mannaia. Scartai a sinistra, e cercai di colpirla al fianco, ma la sua lama si risollevò, bloccando la mia. Feci una capriola all'indietro, evitando un colpo che scheggiò profondamente il pavimento di cristallo. Lei gridò ancora, assordandomi, e balzò di nuovo, a corpo morto. La schivai di stretta misura, e lei finì in mezzo ai terminali, con fracasso, fumo e scintille. Molleggiai sulle gambe, invitandola. Stavolta mirò alla testa. Mi schiacciai a terra, come una rana, saltando nella direzione opposta alla sua, e vibrandole di passaggio un colpo alla schiena. Non speravo certo che il falcetto di Enki agisse su di lei come con la materia ordinaria, ma quando vidi che non aveva accusato il colpo mi venne un dubbio sull'esito della partita. Si fermò a guardarmi, ridendo a bocca aperta. Goccioline di sudore argenteo sfrigolavano sui muscoli delle spalle. Il suo corpo era rovente. Mosse in cerchio il bacino:
«Vieni qui, Helel! Butta la spada e mettimelo dentro!»
Gettò via l'elmo d'acciaio, e i capelli si contorsero come serpenti infuocati.
«Spiacente» buttai lì «ma ho paura di farti male. Ce l'ho molto più grosso di tuo marito!»
Shauska sghignazzò e vibrò la spada. Una nube di frantumi di legno mi seguì nella capriola. La dea mi tallonava come un fiume in piena.
Zigzagando, le diedi modo di sfasciare buona parte dei mobili e delle statue. Poi, improvvisamente, mi ritrovai pressato contro un assurdo e pesantissimo specchio verticale. Quando arrivò il colpo, ricorsi a tutta la mia abilità non per pararlo, il che era semplicissimo, ma per deviare il suo immane impulso verso una direttrice che non incontrasse sulla sua strada la mia testa. Lo specchio, letteralmente, si disintegrò, e io rotolai via. Shauska, irritata, calò un pugno sul pavimento, solcandolo di una rete di incrini. Ruggì e attaccò. Evitai colpi alle gambe e al corpo, e gliene piazzai uno sul braccio destro, sfruttando al massimo le qualità del falcetto. Lo troncai quasi di netto. La sua spada cadde. Lei mi colpì con l'altro pugno. Atterrai, e in questo era grande letizia, sui frantumi dello specchio. Rimettendomi in piedi, vidi con disgusto che la ferita le si era richiusa. Mi lasciai scappare un insulto. Ridendo a crepapelle, Shauska mi fu addosso in due balzi, roteando la spada. Uno dei braceri, colpito, esplose in un'ondata di incenso incandescente, riversandosi sull'altare, sul corpo inerte dell'ancella. Nell'immobile presente dei miei sensi, vidi la guardia di Shauska scoperta a causa dell'urto. Un colpo di falce, al massimo della potenza. Potevo decapitarla? E quando all'eternità di quell'istante ne successe un'altra, stavo già spingendo la ragazza giù dall'altare, liberandola dalle braci. Il fallo di vetro che le era sgusciato fuori dalla vagina stava ancora cadendo quando un violentissimo urto mi mandò a sbattere contro l'altare dei sacrifici. La spada che beve le anime, lanciata come un pugnale, mi aveva colpito alla schiena, fuoriuscendo sul davanti, all'altezza dello stomaco, di almeno due spanne. Caddi a sedere tra i pezzi dell'armatura d'argento, con gran clangore di pentolame. Shauska fu subito sopra di me. Alzai il falcetto, ma le sue dita metalliche si chiusero sulla lama, frantumandola.
«Sai, Helel, mi sono sempre chiesta se tu ce l'avessi, un'anima».
Si fletté, a gambe larghe, e mi orinò addosso, dirigendo il getto di metallo fuso sulla ferita.
«Fa male?»
«Solo alla mia dignità».
Rise, stavolta in modo quasi infantile. Le sue mani mi si chiusero intorno alla testa:
«Hai niente in contrario se vedo cosa c'è nel tuo cranio? Circolano versioni contrastanti...» E strinse.
Incredibile a dirsi, sentii che le ossa parietali e temporali si stavano dissaldando. Shauska si leccava le labbra, sbavando come un altoforno.
L'afferrai, e la feci cadere con il sesso sopra la lama che mi usciva dallo stomaco. Urlò. La spada che beve le anime le risucchiò tutta la vita attraverso la vagina. Il suo corpo divenne bianco come porcellana, poi luminoso come una torcia, i suoi occhi esplosero, e infine, di colpo, mi ritrovai addosso il cadavere di una ragazzina nuda. Ero inondato di sangue. Me la tolsi di dosso. Mi levai in piedi, mi estrassi la spada dalla schiena. Sfolgorava. Mi chinai sull'ancella: era ancora incosciente, ma non sembrava in pericolo di vita. Il ventre sanguinante si stava già rimarginando. Enki continuava a sognare. Restai a fissare il sesso dell'ancella, finché non tornò completamente integro. Mi avvicinai all'ottomana. Il signore delle tecniche guardava oltre le mie spalle.
Con la spada feci due tacche sulla piattaforma di cristallo. Vi puntai i piedi e cominciai a spingere. Il trono emise un tremendo stridio, e si spostò di buona misura. Feci altre due tacche, e spinSi ancora. Tremante per lo sforzo, sentii che oltrepassava l'orlo della piattaforma. Poi si inclinò, e rovesciandosi cadde nel pozzo. Enki andò a disfarsi nell'Apshu ribollente che lo aveva generato. Raccolsi lo scettro di vetro e gettai giù anche quello. Gettai il corpo di Shauska, gli stendardi, l'altare, i rottami e tutte le suppellettili rimaste incolumi. Poi fui stanco, e mi sedetti.
Sarai mi parlava, sull'erba di una delle sette terre, e i cieli ruotavano sopra di noi.
Io dissi:
«Chi ha stretto nelle sue mani il fuoco nero dei tuoi occhi?
Chi ha impresso il suo sigillo nella tua forma?
Chi ha imprigionato il curvarsi della palma nella tua danza?
La tua parola ferisce
La tua bocca dona la vita...»

NON TOCCATE LE FIGLIE DEGLI UOMINI!


Zuleika mi parlava:
«Sei ferito?»
Mi toccai la testa.
«L'ancella...» dissi.
«L'abbiamo portata su».
«Potrà di nuovo danzare e suonare, se nel vostro nuovo ordine ci sarà posto per queste cose».
«I guardiani sono morti».
«Li ho uccisi tutti. E voi vi siete divertiti?»
«Le guardie ci hanno ostacolato, ma gli archivisti collaborano».
«Bene».
«Stai morendo?»
«Che domanda stupida».
«Ora dobbiamo fermare la magia...»
Le sussurai in un orecchio:
«Ti confido un segreto: la magia non esiste!»
E risi forte. Zuleika si tappò le orecchie.
«Ti aiuto ad alzarti?» disse.
«Nessuna magia. Ullikummi dorme di nuovo. I vostri dèi sono morti».
Le braci erano spente, l'odore acuto.
Mi gettai a terra. Baciandole i piedi, piangevo:
«Oh, El! Non è abbastanza? Non è abbastanza?»
Zuleika mi risollevò il volto, e mi baciò. Restammo in ginocchio, faccia a faccia. In alto risuonò il grido di una bestia. Mi strappai il Tup Shimatì dal petto, e l'appoggiai sul suo. Era caldo e sudato.
«Zuleika, io ti attribuisco lo splendore divino».
Lei allontanò la mia mano.
«Tutti voi persone» dissi «siete sempre gli stessi... Zuleika, tu sei la prima donna nata di donna a scendere quaggiù. Ora che hai visto l'Apshu, che te ne pare?»
«Mi sembra una fogna».
«Sei sporca di sangue».
«Anche tu».
Ci unimmo in silenzio, dolcemente, senza spogliarci. Quando la udii singhiozzare, alla fine, mi parve di sentire quella vita presente che era tutto per lei e le sue persone. Ma anche questo, con la quiete dei corpi, fu passato. Il mio seme è freddo. Io non sono una persona. Tutto, per me, è passato. Non voglio più vedere sangue.

L'altipiano è bellissimo.
Chi fa piovere sopra una terra senza uomini? Su un deserto dove non c'è nessuno? Ha un padre la pioggia?
Appesi la Tavoletta dei Destini al collo del mio mulo:
«Io ti conferisco lo splendore divino, e ti chiamerò Teshub!»
Il mulo starnutì, e ci avviammo verso ovest.


Domenico D'Amico
febbraio 1992


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