di Domenico D'Amico
Il Ritorno di Ullikummi, 1992 |
«Quello è un topo» disse Monica, con calma.«Così grosso?» disse Leo.In nessun luogo del sistema solare, su nessuno dei satelliti o dei pianeti, esisteva una creatura così enorme e orrenda.«Che cosa ci farà?» chiese, domandandosi per quale motivo la bambina non avesse paura.«Oh» disse Monica «Suppongo che ci ucciderà.»Philip K. Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch
Quale
splendore è Sarai! Fini chiome inanellate,
occhi
lucenti, naso perfetto, radiosa la luce del suo volto!
Quanto
colmi i suoi seni, come divine le sue braccia,
come
delicate le sue mani, come belli i suoi piedi nei sandali, quanto
ammirevoli e tornite le sue cosce!
Di
tutte le vergini e spose che avanzano sotto il baldacchino nessuna
può competere con Sarai:
la
donna più vaga sotto il dolce cielo.
Sublime
nella sua bellezza
ma
più di ogni altra è saggia e prudente,
con
grazia muove le mani.
C'è
un luogo, alla radice della città, detto Apshu. Interminabili
scalinate sprofondano in un pozzo immenso. Pilastri di fluido
bluastro, come gelatina tremolante, emergono dal profondo. Il
melammu, nella sua forma primaria, guizza e crepita. Le bestie
imprigionate nelle fenditure uggiolano e singhiozzano. Nessun lullu è
mai sceso laggiù, e mai lo farà. Ma se ci scendesse, forse gli
ricorderebbe le acque in cui si è cullato, al sicuro, prima di
essere gettato in un'esistenza a termine. Meglio, la paura lo
ucciderebbe. L'Apshu è ventre, e fuori del ventre. Io non sono un
lullu, non mi ha generato una donna. Andare laggiù mi dà solo
fastidio. Scendere tutti quei gradini, tra le rozze sculture e i
lamenti delle bestie. Niente di peggio da scegliere, come posto di
comando. A me, l'Apshu ricorda una fogna.
Giunsi
alla fine delle scale. Lì, le rampe si avvicinavano al centro del
pozzo, congiungendosi alla base della piattaforma di cristallo dalla
quale Enki governava il suo matu. Era come una giostra. Le colonne a
tortiglione reggevano una volta a padiglione esagonale, diafano
intarsio di marmi colorati, e all'interno un guazzabuglio di
paraventi laccati, stendardi di seta sbiadita, terminali di controllo
d'oro massiccio, e suppellettili malaccozzate, di legno, di marmo e
di plastica. La giostra era sostenuta dall'incrocio delle colonne di
gelatina blu, un canestro che manteneva il trono di Enki sospeso
sopra il vortice abissale del ventre lacustre della terra.
Una
figura larga e pallida giaceva semisdraiata su una colossale
ottomana. Riconobbi Enki dalle emanazioni del suo melammu. Aveva
assunto l'aspetto di un gigante obeso. Deciso a rendere la mia visita
la più breve possibile, mi avvicinai a lunghi passi. Feci la
genuflessione protocollare e rimasi in attesa. Lo sguardo di Enki era
vacuo. Una ragazzina, nuda e piena di gioielli, gli stava succhiando
il membro numinoso. Dissimulai la mia impazienza. Gli incensieri,
sospesi ad altezza d'uomo dalle lunghe catene che li univano alla
volta, ammorbavano l'aria.
Pazuzu Velato, 1993 |
«Dovresti
essere più sollecito, quando il tuo dio ti chiama».
Gli
occhi grigi che mi irridevano non erano quelli di un lullu.
«Shauska,
mia signora... Il vostro melammu era così sommesso che vi avevo
scambiata per una figlia della terra».
La
ragazzina si alzò in piedi. Enki non batté ciglio. Rimase lì, la
faccia assorta e il pene rigido.
«Questo
non può non dispiacerci. Noi contiamo sulla tua acutezza» disse
scuotendosi tutta. Produsse un rumore di sonagli.
«Sarebbe
una virtù, ai vostri occhi» dissi «se nemmeno la vostra regalità
ne fosse al riparo?»
«Sarebbe
un vizio se avessimo motivo di dubitare della tua fedeltà...» Colse
il mio sguardo verso Enki.
«Il
tuo signore non può subire distrazioni» disse.
«Tranne
la più deliziosa di esse».
«Insubordinato
come sempre, Helel».
«Il
vostro rimprovero è la mia delizia, Shauska, mia signora».
«Dovremmo
dire al tuo signore di farti disperdere nel vento».
«Il
vostro castigo è il mio godimento».
«Ma
un consigliere come te è infinitamente prezioso. Visto che trai
piacere dai rimproveri, sarà nostra cura lodarti incessantemente».
«Cosa
vale un mio capriccio, di fronte ai vostri desideri?»
Con
un dito Shauska fece oscillare i campanellini che le pendevano dai
capezzoli.
«Si
tratta di una questione delicata» disse «il regno è in pericolo».
«Mi
permetto di osservare» dissi in tono cordiale «che in questo caso
una riunione dell'intero puchrum sarebbe la cosa più indicata».
«In
questo momento gli altri anunnaki sono assenti».
«Tutti?
Anu, Enlil, Damkina?»
«Tutti».
«Anche
Teshub?»
«È
già all'opera per rimediare alle nostre difficoltà».
«In
questo caso...»
«Ma
esse richiedono un'azione decisa e discreta anche qui, nel matu».
Accennai
a Enki:
«Cos'ha?»
Shauska
si distese su un'agrippina di marmo nero, e protese verso di me un
piede nudo e ingioiellato.
«Il
tuo signore Enki» proferì soavemente «è giunto alla pienezza del
ricordo: ogni nuovo pensiero ne scaccia uno vecchio. Ne consegue la
necessità di essere selettivi nel dargli notizie del matu. Ce ne
occupiamo noi...»
«La
mia signora Shauska, ora, governa».
«Come
sei acido, Helel...»
Mi
accarezzò la guancia con la punta dell'alluce.
«Il
mio compito è servire...» dissi baciandole il piede «Di che natura
è questa... emergenza?»
La
carne di Shauska cominciò a incresparsi, a pulsare, le ossa a
rimescolarsi. I gioielli si dissolsero nelle onde iridescenti della
sua pelle. Ora somigliava a una delle statue che l'onoravano nei
templi della città. Un corpo d'oro lucente, una corazza d'argento
intorno al busto, l'elmo d'acciaio. Al fianco, la spada a due tagli
che beve le anime. Si avvicinò a uno dei terminali di controllo. Il
suo tono da melodioso si fece secco e raschiante:
«Guarda.»
Lo
schermo mostrava un sesso femminile.
«È
un sesso femminile» dissi incolore.
«Nient'altro?»
«È
un'ancella di Ninatta. Una musicante».
Difatti,
un anello con due smeraldi ornava le piccole labbra.
«Ebbene?»
articolò Shauska.
«È
un sesso un po' angusto, direi...»
«E
come mai?»
«Il
mondo è bello perché è vario...»
Uno
schiaffo d'oro massiccio mi colpì le labbra:
«Osserva
la forchetta vulvare, idiota!»
Mi
chinai verso lo schermo, per testimoniare la massima attenzione. La
commessura posteriore delle piccole labbra presentava una
leggerissima aderenza, un accenno di saldatura.
«Sembrerebbe
quasi...» cominciai, nella parte dello studente volenteroso.
«Sì?»
«Sembrerebbe
quasi che questa vagina stia cominciando a chiudersi, a partire dal
basso».
«Esatto.
E ora guarda».
La
vagina si ingrandì fino a occupare tutto lo schermo, poi le si
sovrappose uno schema ben noto: la valle del regno, il matu di Enki.
Recitai:
«Sì,
il matu del signore Enki è la fertile vallata della Grande Madre...»
Stavolta
fu un piede metallico a colpirmi.
«Risparmiami
queste cazzate! Cosa c'è qui?»
Indicò
sulla carta del regno la zona corrispondente alla piccola aderenza
dell'ancella.
E
io dissi:
«Ullikummi».
Retorica, 1993 |
Un
tempo migliore, si dice. Quando il mondo era giovane. Quando niente,
né mari né montagne, né bestie né uomini, niente era ancora stato
creato (questa è la favola che i lullu si raccontano).
Tiamat,
la Grande Madre, si preparava alla resa dei conti contro le nuove
generazioni di dèi. I suoi figli e nipoti erano troppo dinamici, per
i suoi gusti. Investì allora dello splendore del potere il giovane
Kingu, un ambizioso outsider, e gli affidò la potentissima Tavoletta
dei Destini. Per adiuvarlo nel conflitto imminente, scodellò una
terrificante parata di mostriciattoli: enormi serpenti grondanti
veleno, chimere dagli aculei di bronzo, cani urlanti, bisonti,
draghi, idre e quant'altro. Dotandoli (e questo era imperdonabile)
dello splendore divino, il melammu.
L'assemblea
degli dèi, il puchrum, stigmatizzò la perversa illegalità di
quelle operazioni pre-belliche. Inviò allora uno della seconda
generazione, Anu, perché intimasse a Tiamat una resa incondizionata.
Ma Anu tornò con la coda tra le gambe (la mamma è sempre la mamma,
anche se è la mamma della propria mamma). Si affidò l'incarico a
Enki, ma anche se allora non si compiaceva di fare l'obeso
catatonico, e fosse invece un giovane gagliardo e abile, signore
delle tecniche, pure lui tornò senza niente in mano. Il mandato
quindi pervenne a Teshub, figlio di Enki, un ragazzo dagli occhi
rossi estremamente svelto nel manipolare le tempeste. Teshub si
sobbarcò l'onere e l'onore dell'impresa, in vista dei vantaggi
gerarchici che gli si prospettavano, ma pretese un'investitura
diretta, solenne e unanime da parte dell'intero puchrum. Il suo
melammu ne risultò grandemente rafforzato.
Tuttavia,
il nuovo sposo di Tiamat, Kingu, aveva la Tavoletta dei Destini, il
Tup Shimatì, ed eliminarlo era virtualmente impossibile. Quando
Teshub cercò di colpire Kingu con una freccia, l'azione del Tup
Shimatì fece tornare il dardo alle vene metalliche da cui proveniva,
e l'arco alla foresta di origine, dove ridivenne il ramo in cui era
stato scolpito. Non potendo influenzare la Tavoletta dei Destini,
Teshub colpì la volontà che la guidava. Un terrificante uragano
innervato di folgori si abbattè su Kingu. Accecato, continuava a
ripetere:
«I
miei occhi! I miei occhi!»
Per
Teshub fu facile strappargli il Tup Shimatì e ucciderlo. Così si
compì il destino della vasta e inerte Tiamat (secondo la favola, del
suo cadavere si fecero valli e fiumi, esseri viventi e acque
sotterranee). Quanto ai mostri, erano carne da cannone, e furono
destinati, catena al collo, a fare la guardia agli spazi sacri. Per
questa vittoria, Teshub fu acclamato primo fra gli dèi.
Ma
il sospiro di sollievo degli anunnaki fu interrotto dalla piccola
sorpresa postuma di Tiamat: il parto di Ullikummi, il gigante di
perfido porfido. La sua azione sconcertò quei giovani scavezzacollo.
Non consisteva in una strategia di aggressione diretta. Ullikummi,
semplicemente, si espandeva. Con la sua massa minacciava di
schiacciare tutti i domini degli dèi. Stavolta Enki non si lasciò
sfuggire l'occasione di fare bella figura (e di avere una fetta della
torta del nuovo ordine): ideò un'arma di acciaio eutettoide, una
spada ricurva dotata della proprietà di far collassare la materia
che veniva in contatto col suo filo. Tagliare un capello o fare
accartocciare una montagna: questione di tecnica. E in questa, Enki
era insuperabile. Troncò la testa (o i piedi) di Ullikummi,
bloccandone la crescita. Per sempre, si sarebbe detto. Ma ora, dopo
tanto tempo, la pace che gli anunnaki si godevano nel loro orticello
stava per spezzarsi, irrimediabilmente.
Ullikummi
era grosso, duro. E si era svegliato.
«Ullikummi
è vivo. E cresce».
«Vedo»
dissi guardingo.
«Volevi
chiedermi: che rapporto c'è tra l'ancella e Ullikummi?»
«Un
rapporto di similarità? La vulva di questa musicante è un'icona
efficace della valle di Enki? C'è qualcuno all'opera dietro tutto
questo? Qualcuno capace di servirsi dell'Arte?»
«Vedo
che capisci al volo» disse Shauska, sprezzante «è magia dei vecchi
tempi. Sei il nostro maliku. Per questo ti ho fatto chiamare».
«La
mia signora sa di certo che, in linea di principio, una magia per
similarità è semplice da annullare: la roccia minaccia di
schiacciare il nostro matu così come il sesso di quest'ancella si
sta chiudendo. Perciò basterebbe invertire il processo in uno dei
due termini perché la stessa cosa avvenga anche nell'altro...»
«Che
brillante suggerimento!»
«...Anche
se l'autore di quest'Opera sarebbe un vero incompetente, se non
avesse preso le dovute precauzioni».
«Bravo,
Helel! Abbiamo praticato già due operazioni chirurgiche che non
hanno avuto nessun effetto durevole».
«Ed
è ancora viva?»
«Che
vuoi dire?»
«La
mia signora Shauska, lo so bene, è un'intenditrice di simili
operazioni, e molto spesso le figlie della terra non sopravvivono...»
Lei
sputò da un lato una specie di espettorazione argentea:
«Non
siamo a una festa, idiota! Certo che è viva! Ma il suo ventre, per
quanto divaricato, continua sempre a chiudersi...»
«Forse
bisogna mantenerlo in uno stato di costante divaricazione».
«In
questo caso, lo strumento che la invade tende a disfarsi: a volte si
liquefa a volte si sbriciola».
«In
questo caso, mia signora, non resta che affidarsi alla potenza del
signore Teshub».
«Ti
ho già detto che se ne sta occupando!»
«Dunque,
mia signora, siamo in buone mani...»
«Sei
una iena che si nutre delle proprie viscere! Teshub non ha una
nozione esatta dell'uso di quella specie di falce calibiana: l'unico
che ce l'ha» e non guardò affatto il suo immobile consorte «in
questo momento non potrebbe impugnarla come fece un tempo.»
In
questo momento e per sempre, pensai.
«Tuttavia»
dissi «la mia fiducia nel signore delle tempeste è incrollabile».
«Ipocrita!
Dobbiamo agire su tutti i fronti!»
«Quali,
mia signora?»
«Tre,
stupido! Teshub direttamente sul gigante di porfido, io sull'ancella
per trovare il sistema di sdrucirla, e tu...»
«Io,
mia signora...?»
«Tu,
fetida carogna, cercherai l'autore di questo intollerabile atto di
sovversione!»
«È
un compito molto arduo».
«Adatto
a un individuo doppio e subdolo come te, Helel» mi sorrise «E ora
fuori dai coglioni e sali su a fare il tuo lavoro!»
I
suoi denti erano diamanti.
Nuovamente
ragazzina, tornò a dedicarsi al pene del suo subli me sposo. Ero
congedato. Risalendo per le interminabili rampe dell'Apshu, non
potevo trattenermi dallo sfregare le mani una contro l'altra,
eccitato. Che Shauska tentasse di fregarmi era una lusinga per le mie
attitudini che non potevo assolutamente respingere.
Riemerso
in superficie, salii su un montacarichi, e arrivato sul primo
terrazzamento presi un ciclotassì, facendomi portare agli Archivi.
Il cielo dell'alba era completamente privo di nubi. Le guardie armate
mi salutarono, irrigidite. I vestiti violacei degli archivisti si
inchinarono di fronte al mio completo nero. Salii fino al Centro dei
Centri. Di lì, il piano più alto dell'edificio più alto del
terrazzamento più alto, attraverso una vasta finestra rettangolare,
si poteva vedere l'altipiano nel quale era stato scavato il matu di
Enki.
Un
deserto dove non c'è nessuno.
Rivolsi
lo sguardo ai miei assistenti. Alacri, andavano e venivano,
incrociandosi tra le colonne trilobate di plastica gialla.
Riaggregavano i dati sulla distribuzione delle derrate, sciocchezze
del genere.
«Preparate
l'intubazione» dissi «voglio consultare il Verbatim.»
Diedero
energia all'ordigno, ennesimo capolavoro di Enki. Una specie di noce
di metallo, alta come un uomo, che racchiudeva cervello vivente in
formazione lamellare. A un'estremità del guscio la saldatura delle
valve scopriva un orifizio gommoso che, man mano che l'energia
affluiva, cominciò a emettere fiotti di saliva brunastra. Mi tolsi
il soprabito, la giacca, e mi arrotolai la manica destra della
camicia color antracite. Cinsi l'avambraccio nudo di un complicato
intreccio di filatteri neri. Era un rituale assolutamente gratuito,
ma faceva colpo sui miei sottoposti.
«Intùbo»
dissi, e infilai il braccio nell'orifizio, fino al gomito.
Gli
strati di tessuto cerebrale disposti come le frittatine di un
timballo, erano solo il supporto inerte dell'ordigno informatico: le
connessioni erano costituite da un organismo parassitario,
geneticamente stabilizzato, che innervava l'intero sistema. Le
terminazioni del parassita mi si incollarono alla pelle, nella
speranza di succhiare da me un qualche nutrimento. Vennero invece
agganciate dalla mia rete neurale. Mi ritrovai di fronte l'icona
congruente della città. Il Verbatim. Cominciai a percorrerla, dentro
e fuori. Terrazzamenti, pozzi, templi, vicoli ed edifici. Tutto era
perfettamente normale. Il solito vivacchiare dei lullu. Ma di colpo,
il mio punto di vista si ritrovò impigliato in un vettore inaudito.
Procedetti a folle velocità lungo le rampe dei livelli inferiori,
frugando vertiginosamente tra le vasche che raccoglievano i rifiuti
della città. Il volo si arrestò davanti a una figura di donna.
Stava
nuda, immersa fino alle ginocchia negli escrementi, i capelli
raccolti in una fascia. Guardò verso di me, e questo era
impossibile. I suoi occhi erano neri. Poi alzò la testa, e mi indicò
la sommità del matu. Il mio punto di vista si dilatò di nuovo, e
vidi che dalla cima della città, dall'edificio degli Archivi,
prorompe va un getto luminescente che cominciava a riversarsi sui
terrazzamenti. Era sangue. Con uno strattone liberai il braccio. Mi
ritrovai nel Centro dei Centri.
«Stupido
pasticcio di carne!» dissi.
I
miei collaboratori facevano finta di niente. Le mie scarpe facevano
cic ciac sulla saliva del Verbatim. Ordinai di ripulire, cosa che
fecero con compassata dignità. Sapevano benissimo che se avessero
provato loro, a intubare, il parassita li avrebbe divorati senza
nemmeno degnarsi di risputare gli ossicini. Ma loro, così orgogliosi
di appartenere alla più pura delle caste, non si sarebbero mai
sognati di guardare con stupore o invidia nessuno, nemmeno il
malikili.
Patetico.
Gli
impiegati di raccordo erano contenti di non avere tutte le
responsabilità dei loro superiori, ma facevano i galletti coi
coordinatori di informazione, i quali se ne consolavano pensando alla
loro relativa libertà di movimen to rispetto agli impiegati, che
potevano comunque guardare dall'alto in basso tutti i cittadini
comuni. E via e via. Solo la casta più bassa non poteva rivalersi
con nessuno. Ma quelli erano troppo rintontoliti dai miasmi dei
lieviti per apprezzare le delizie dello spirito. Peccato, perché se
la punta dello ziggurat erano gli archivi, la base erano i lieviti,
che fornivano energia a tutta la città.
Io
sono uno dei pochi che abbiano una conoscenza meno che superficiale
delle duemila e quattrocento caste del matu di Enki. Perfino i miei
fidi archivisti, per la loro supponenza, disdegnano di esaminare a
fondo l'articolazione della città, loro che ne regolano la vita,
orgogliosi delle loro competenze settoriali. Io no. Io ho visto
nascere le caste. Ho contribuito alla pianificazione. Società
metafisica. Così in cielo così in terra.
L'idea
non è stata mia, ma l'ho perfezionata con miglioramenti come il
codice dei tre colori. Creare una corrispondenza tra gli attributi
dei tre grandi dèi della seconda generazione, Anu, Enlil, Enki, e il
singolo ruolo della singola casta. Grandioso. Un colore dominante e
due secondari. Gradevole. Autoevidenza della casta. Efficiente. E
apprezzo in egual misura l'irrefrenabile tendenza al caos che domina
i lullu. Immerso nel mercato del primo terrazzamento, mi godevo i
frutti della loro creatività. Pavimentatori all'opera, col
fazzolettone arancio in testa e i lacci viola e nero sulle braccia
nude. I ricamatori, col grembiule rosso sangue e la collottola metà
bianca metà verde. Le venditrici di specifici taumaturgici, colla
loro gellaba grigia e il velo rosa acceso sulla testa e blu acciaio
sul petto. E via e via.
Passavo
indisturbato, tra grida e richiami. Tutti facevano del loro meglio
per ignorare la mia figura nera. Se incontravano i miei occhi,
abbassavano la testa in un inchino che arrivava quasi al selciato.
Qualche lullu metteva al sicuro le figlie adolescenti. Credevano che
fossi un dio. Ognuno ha gli dèi che si merita. Ai pidocchi, cani. Le
donne grigie decantavano i loro elisir, i loro amuleti. Erano
l'ultimo residuo di un'Arte perduta per sempre. E se non lo erano,
perché Ullikummi si muoveva? Sempre ammesso che fosse vero: le gole
alle estremità del matu di Enki erano fuori del controllo visivo
degli Archivi. Avrei dovuto controllare di persona. Gettai
un'occhiata all'orpello sincretistico delle protezioni contro il
male: icone di ogni tipo a nome Nergal, Baal Zabub, Arimane, Samaél,
Yblis, Tiphon... Nessun lullu sapeva esattamente cosa indicassero
quei nomi, ma questo non aveva nulla a che fare con la loro
efficacia, peraltro nulla. Il brulicare del suk era sovrastato dalla
cuspide del palazzo degli Archivi. La casta preposta al la razionale
regolazione della vita economica e sociale di tutto il matu aveva ai
suoi piedi le attività frutto della corruzione dei funzionari.
Mercato nero di merci sottratte alla loro destinazione. Stimolanti ed
euforizzanti. Letteratura proibita. Chirurghi abusivi coi loro organi
di dubbia provenienza. Spettacoli di sangue, prostituzione di sangue,
giochi di sangue.
Oh,
noi permetteremo loro anche il peccato: sono così fragili e
impotenti; e loro ci vorranno bene come bambini, per il fatto che noi
permetteremo loro di peccare.
Solo,
non c'erano armi. I bambini, spesso, fanno i cattivi. I miei sensi
erano tesi e taglienti. Quello che cercavo era in qualche modo
correlato con il suk? L'odore e il colore dei lullu, il cuoio, il
ferro caldo, e mele, albicocche, pesche, cotogne, limoni, cedri,
arance, basilico, mirto, gelsomini, carne fresca, mandorle, pepe,
paglia, ambra grigia, carta bruciata, circuiti surriscaldati, asfalto
molle, escrementi, sangue... E in effetti c'era qualcosa. Ma non lì.
Non lì, e nemmeno nel resto del matu. Qualcosa di assente. Qualcosa
che suggeriva il possibile avvento di una grande quiete.
Un'ondulazione indistinta, senza centro. Oppure, non c'era forse
l'ombra di un'inclinazione, di una predilezione? I miei occhi
incontrarono altri occhi. Neri. Lo squagliamelma di un pavimentatore,
imperizia o scarsa manutenzione, esplose. Fui scaraventato contro un
bancone di crostacei. Mi rimisi in piedi in meno di un secondo, tra
astici in ambascia e tubi fluo rescenti che crepitavano spezzandosi.
Lei stava già scappando. Chi ci sogna crea spesso di queste
corrispondenze. Cominciai a correre. Lei era molto veloce. Giovane.
Soffiai, sputando, e risi. Si infilò nei vicoli della parte sud del
terrazzamento (lì la plastica bianca delle case è così vecchia da
cadere in polvere). Conosceva il posto, ma perse ugualmente terreno.
Se ne accorse e si fermò. Mi fermai anch'io, a circa cinque passi da
lei. La fissai, tranquillamente. Lei, ansimando, probabilmente si
domandava perché non le saltavo addosso, perché il mio respiro era
perfettamente regolare, perché la fissavo... Visto che era stata lei
ad agganciarmi, decisi che era compito suo rompere il ghiaccio. Mi
stava puntando contro un'arma automatica.
Evitai
di riderle in faccia. La canna della pistola a impulsi era
millimetricamente allineata col mio cuore. O, per meglio dire, con la
mia regione anatomica in cui lei riteneva fosse situato un mio organo
vitale di una certa importanza. Attesi che il suo respiro tornasse
normale. Era vestita di verde chiaro, ma non indossava i colori
secondari. Illegale. Comunque, i piedi nudi macchiati di escrementi
la identificavano come una pattumaia. Lavoratrice di un terrazzamento
molto inferiore a quello. Il velo lasciava scoperti solo quegli occhi
neri... Per un attimo sospettai potesse essere uno degli anunnaki. Ma
dopo che Shauska era riuscita a nascondermi il suo melammu, mi ero
imposto di essere particolarmente ricettivo. No, non era un dio, ma
un lullu. Era una rimestatrice di sterco della parte più bassa del
matu. Una pattumaia con la pistola.
«L'ancella.»
Nonostante
le sopracciglia a sesto acuto, che le davano un'aria di perpetuo
sbalordimento, il tono era duro e controllato. Sorrisi educatamente:
«Prego?»
«Abbiamo
bisogno di lei».
«Ah,
avete bisogno».
«Tu
sai del suo legame con Ullikummi!» La sua era una constatazione «Tu
sai che cosa sta succedendo, tu sei il malikili».
«Io
so sempre quello che sta succedendo. Puoi dire lo stesso, tu?»
Ignorò
il mio fine sarcasmo:
«E
allora sai perché la vogliamo.»
«L'ancella...»
«L'ancella!»
Finsi di riflettere, poi dissi:
«Se
volevi parlarmi, perché ti ho dovuto inseguire?»
«C'è
troppa folla, nel suk.»
Senza
smettere il mio sorriso, mi protesi verso di lei. Ci sono ancora
canzoni che esaltano la mia abilità, fraintendendola, però: mi
prendono per una specie di baro, ma io amo il gioco per il gioco. Oh,
vecchio El! Un attimo prima mi puntava contro una pistola, e l'attimo
appresso si ritrovava spalle al muro, disarmata, la mia sinistra
intorno al collo. Saggiamente, non tirò calci o cose del genere.
«Teoria
e prassi della teocrazia castale» disse, un po' ingorgata dalla mia
stretta «l'hai scritto tu, sei dalla nostra parte!»
«Oh,
sono dalla vostra parte? E, se la mia indiscrezione non ferisce
eccessivamente la tua sensibilità, dalla parte di chi?»
«Di
chi vuole spazzare via Enki e le sue caste...» rantolò.
Stavolta
non potei trattenermi. Sghignazzai:
«Interessante,
come programma minimo. Molto grazioso anche il tuo metodo per
reclutarmi».
«Seguiamo
le linee del tuo libro!»
«Ma
che spasso! Lasciate che i lullu vengano a me!»
«Non
chiamarci lullu! Noi... abbiamo un grande rispetto per te!»
Le
liberai il collo. Aderii contro di lei. Le scoprii il volto.
«Puzzi
di merda» le sussurrai «è un odore che mi ricorda la mia
giovinezza...»
Lei
sostenne il mio sguardo, inflessibile. La baciai, e ancora mi
guardava. La mia lingua, come un serpente di cartapecora, le violò
la chiostra dei denti. Le alzai la veste, entrai in lei. La luce del
cielo era viola. Continuò a fissarmi con odio, emettendo dal naso
suoni taglienti, le labbra sbiancate. Infine, mi sputò in faccia.
Questo mi portò all'orgasmo. Strofinai il volto contro la sua
gellaba.
Danza, 1993 |
«Il
vostro proposito di impadronirvi della ragazza è ridicolo.
Impedireste agli anunnaki di fermare Ullikummi: e allora? Nessuno può
sapere quale sia il suo ritmo di crescita. Potrebbe stritolare il
matu di Enki in una settimana, in un mese, in un anno. E quale
sarebbe il vantaggio? Presumo che il vostro intento sia liberare il
popolo da una sanguinaria e secolare oppressione da parte di una
cricca di degenerati... Ma se Ullikummi si muove, il popolo sarà
carne trita».
«Così
in cielo così in terra. È il terzo capitolo del tuo libro. L'ordine
castale è costruito specularmente a un ordine gerarchico
ultraterreno. Distruggere l'ordine metafisico significa minare
l'ordine materiale. Ullikummi metterà in fuga Enki e Shauska, e
anche gli altri anunnaki saranno impotenti! Il loro ordine sarà
distrutto. Poi penseremo a fermare il gigante di porfido, con il tuo
aiuto».
«La
tua esegesi dei miei scritti è alquanto zoppicante. Il mio era un
divertissement destinato al mercato nero. Eliminare la
giustificazione trascendente delle caste non implica la loro
scomparsa. Voi lullu le avete dentro di voi, scolpite nell'anima.
Scommetto che tu e gli altri merdaioli siete infinitamente orgogliosi
di fornire la materia prima per la produzione di energia, e che
guardate gli addetti ai lieviti, che dipendono dai vostri
rifornimenti, come se fossero cani morti...»
«Tu
ci chiami lullu, ma non lo siamo. Possiamo essere migliori dei nostri
dèi. Possiamo essere migliori di te».
La
piccola mescita era quasi deserta. I fiaschi di ippocrasso, nelle
loro reti di corda, oscillavano al venticello pomeridiano. Guardai
giù. I terrazzamenti si perdevano nel buio della valle.
«Come
ti chiami?»
«Zuleika».
Fuori
del velo, i suoi capelli erano magnifici. Neri, ondulati, e l'aria
aggiungeva onde alle onde. Il manto inanellato che incatena i re.
Dissi:
«Un
tempo, molto tempo fa, prima che questi bambini si costruissero i
loro castelli di sabbia, ho amato qualcuno. Aveva i tuoi occhi... Io
vi chiamo lullu perché lo siete. Feti. Esseri non ancora formati. I
vostri dèi non vi chiamano in nessun modo, così come non
attribuiscono nomi ai pidocchi dei loro cani».
Il
suo sguardo era furioso, ma senza odio:
«Ti
credi superiore agli anunnaki, ma ragioni come loro. Non siamo
pidocchi, e non siamo più feti. E se tu ci aiuti, i cani si
nutriranno dei loro padroni».
Ridacchiai:
«In
quanti siete, voi... sovversivi?»
«Posso
radunare duecento donne e uomini armati».
«Davvero
un cane ha più pidocchi» dissi, tirando fuori la sua pistola «e
armati con cose come questa?»
Non
attesi la risposta:
«Vi
procurerò io qualcosa di più efficiente. Eseguirete le mie
direttive alla lettera.»
«Non
ci userai» disse lei «per una tua congiura personale contro gli
anunnaki, vero?»
«Tu
che dici? Sono tipo da simili doppiezze?»
Zuleika
fece spallucce, e mi guardò con onesta curiosità.
«Tu
sei molto vecchio» disse «molto più vecchio di tutti loro...
Perché li servi?»
«Perché
è indifferente».
«Qual
è il tuo vero nome?»
Sorrisi:
«Io
non ho nome. Ora mi chiamano Helel ben Shahar, e sono il malikili, il
consigliere degli dèi. Ma tu, se vuoi, chiamami pure Yblis».
E
poi, fu forse l'età, o i fantasmi del passato, ebbi un attimo di
debolezza. Le accarezzai i capelli con le dita a pettine.
Non
toccate le figlie degli uomini!
Oh,
El!
Una
valle chiusa da altissime pareti di roccia, con solo due varchi a sud
e a nord, è l'ideale per il controllo dei sottoposti. Gli anunnaki
l'avevano scavata proprio per quello. Sarebbe stato mio privilegio
usare un mezzo aereo, ma la discrezione mi suggerì qualcosa di più
ordinario. Superare non visto le fortificazioni della gola sud fu
facile. Arrivare in vista di Ullikummi, meno. Le vibrazioni basse
intimidirono il mio mulo. Si bloccò, rigido come un giocattolo,
svuotò gli intestini e rimase pervicacemente indifferente alla mia
autorità. Mi avviai a piedi, deliziato dagli sbuffi di polvere
luccicante che mi venivano incontro.
Dopo
un'ora, lo vidi. Avanzava come un ghiacciaio. Accrescimento
cristallino. Protendeva le sue dita esagonali, le conficcava nella
roccia della gola, poi le facce dei cristalli generavano altri
cristalli, fino a produrre una selva spessa, sempre più spessa, che
più compatta si faceva più si protendeva in avanti per occupare
altro spazio. Ullikummi era rumoroso. Oltre al rombo tellurico del
suo corpo strisciante, c'erano gli schianti e le esplosioni della
roccia che si spaccava, il tonfo dei macigni, gli scrosci del
sassame, il ciottolio dei frammenti più pic coli e il cigolio
incessante dei cristalli che si allungavano. Se il matu di Enki era
una vulva, Ullikummi non la stava affatto chiudendo, ma violando.
Manco a dirlo, Teshub era immerso nel culmine del diluvio mi nerale,
e contribuiva con tutte le sue forze a incrementarne il chiasso. Il
signore delle tempeste usava il suo potere per tenere sotto controllo
la proliferazione di Ullikummi, e nel contempo muoveva in cerchio il
falcetto di Enki. Ma era evidente che, nonostante tutta
quell'agitazione e il vibrare delle folgori, Ullikummi avanzava.
Velocemente. Shauska ovvia mente aveva ragione: Teshub non era in
grado di utilizzare a pieno l'arma creata da suo padre. Emisi un
sibilo abbastanza acuto da essere udibi le in quel frastuono. Senza
smettere di combattere, Teshub mi lanciò un'occhiata. Perse una
battuta, poi parve decidersi. Fulmineamente, mi fu davanti.
Alto
più di me di un paio di teste, massiccio nella sua armatura
scarlatta, i capelli ritti e rugginosi, gli occhi rossi aggrottati,
il melammu al massimo della potenza, la spada di Enki in posizione
d'attacco e incastrato nel pettorale il Tup Shimatì, la Tavoletta
dei Destini, segno della sua preminenza nel puchrum, Teshub sembrava
poco disponibile.
«Torna
subito dal tuo signore!» tuonò. Mi dava il benvenuto con un
congedo.
«Grande
è Teshub, Signore delle Tempeste!» uggiolai «Il ruggito del leone
e l'urlo del leopardo sono bisbigli...»
Mi
voltò le spalle, e si avviò verso Ullikummi.
«Stronzo!»
Sentendosi
apostrofato così irrispettosamente da un sottoposto, Teshub invertì
il senso di marcia, senza esitare e senza fermarsi. Aveva intenzione
di usare il falcetto di Enki. Mi strappai dalla cintura l'emblema
solare che faceva da fibbia, e glielo scagliai contro. Come
prevedevo, nell'attimo in cui vide partire la stella, Teshub pose
mano alla Tavoletta dei Destini. Il Tup Shimatì ha un potere
illimitato, che gli anunnaki non comprendono pienamente, avendolo
ricevuto in immeritata eredità. Per questo è sempre stato visto più
come sigillo di investitura che come arma. L'unico ad averlo usato,
una sola volta, era stato Kingu. La Tavoletta dei Destini rendeva
irrevocabile la parola del suo possessore. Ma gli anunnaki
balbettavano appena. Teshub poteva servirsene per invertire lo status
spazio-temporale del suo bersaglio. Adoperare il Tup Shimatì contro
Ullikummi, figlio della terra e plasmato, si diceva, con la stessa
sostanza del mondo visibile, sarebbe stato considerato folle. Ma
contro di me, contro quel pezzetto di metallo... Teshub voleva
vederlo retrocedere in disgregazione, voleva vedere le sue particole
trapassarmi, prima che tornassero alle loro origini. Quando si
accorse che la fibbia non solo non si arrestava, ma proseguiva nella
sua traiettoria con ancora maggiore velocità, fece solo in tempo a
mettere una mano davanti alla faccia. Il sole d'acciaio gli sfondò
il metacarpo, penetrandogli nel cranio. D'istinto, il suo corpo cercò
di mutare, adattandosi alla situazione. Ma la stella continuò ad
andare avanti e indietro, frugando l'interno di Teshub, finché non
ne rimase che un tritume palpitante di minuscoli lampi gialli.
Raccolsi la spada di Enki, e annientai la stella, che continuava a
girovagare tra le membra sparse. I frammenti di pelle e unghie che
avevo sottratto a Teshub molto tempo prima, fusi nel metallo della
fibbia, l'avevano costretta a dare una caccia incessante al plasma
genetico di origine.
«Una
bella magia, non trovi?»
Continuai
a colpire i pezzi di Teshub, finché non restò nulla. La Tavoletta
dei Destini era sul mio petto, adesso.
Quando
demmo battaglia a Og, gli prendemmo tutte le sue città: sessanta,
tutte fortificate, con alte mura, porte e sbarre, senza contare le
città aperte, che erano molto numerose. Noi le votammo allo
sterminio, come avevamo fatto di Sicom, re di Chesbon: votammo allo
sterminio ogni città, uomini, donne, bambini. Ma il bestiame e le
spoglie delle città li prendemmo per noi, come preda.
Vedo
il sangue zampillare dal culmine della città, rovesciarsi irruento
sui terrazzamenti, ruscellare giù, fino in fondo alla valle,
riempirla, salire fumante fino a sommergere uomini e cose, finché il
matu di Enki è un piccolo mare e tutti sono morti, nel sangue.
Oh,
El! Non è abbastanza? Non è abbastanza?
Zuleika
mi aspettava con i suoi guerrieri. Ragazzine e ragazzini, travestiti
da operai del ferro. Un buon auspicio. Si era legata i capelli dietro
la testa. Com'erano belli i suoi piedi nei sandali...
Li
condussi nei miei depositi personali, sotto il suk. Diedi loro i
lanciagranate, i fucili a impulsi, e li istruii velocemente.
Zuleika
mi disse:
«La
tua faccia è piena di rughe».
C'è
un luogo, alla radice della città, detto Apshu. Una fortificazione
circolare, affollata di guardiani armati, tutta di pietra color
ferro, protegge un pozzo senza fondo. In quel pozzo, perduto nei suoi
sogni, Enki governa il suo matu. Ora la sua sposa sta giocando la
stessa partita che un giorno aveva decretato la fine dei vecchi dèi.
Tocco la Tavoletta dei Destini. Stavolta i guardiani non mi
concederanno di scendere nell'Apshu, non senza combattere.
L'aria
era carica di melammu. Il colore dei pilastri di gela tina era
percorso da venature di luce violacea. Il fumo dei braceri era più
greve che mai, e il signore del matu continuava a fissare il nulla.
Shauska, troneggiante nel suo fulgore guerriero, era china su un
consunto altare sacrificale. Su di esso, immobile, un corpo nudo,
sonagli alle ca viglie. L'ancella di Ninatta. Shauska si volse verso
di me, alzando la gamba destra e allargando le braccia con fare
ospitale. Così la raffiguravano i bassorilievi: la dea che accoglie
il guerriero vincitore. I pezzi dell'armatura erano sparsi ai piedi
dell'altare: sul corpo nudo e dorato cingeva solo l'elmo e la spada.
Le labbra del suo sesso palpitavano. Dicevano fosse dotato di denti.
Feci due passi verso di lei. Vidi un grosso scettro di vetro spuntare
dal ventre dell'ancella. Molto sangue. Non mi genuflessi.
«Ho
fatto quel che volevi» dissi «Teshub è morto».
La
sua faccia era davvero quella di una statua:
«Ti
avevo ordinato di indagare sulla magia dell'ancella».
«Ho
fatto quello che desideravi» ripetei «Eliminato il signore delle
tempeste, sarai tu a dettare legge nel puchrum...»
«Sia
come tu dici. Ora consegnami la Tavoletta e la falce».
La
sua mano d'oro era sull'impugnatura della spada. Guardai verso Enki e
la sua stolida erezione:
«Da
quanto tempo è così?»
Shauska
non rispose. Continuai:
«Ho
visto Ullikummi che invece di riempire la valle la divaricava.
Viviamo in un sogno. Il sogno di Enki. Non c'è nessuna magia. Noi
viviamo in un ventre di donna, aggrappati all'orlo della sua
apertura. Enki sta sognando di violarlo, e Ullikummi si è svegliato.
L'ancella che lentamente si sigilla non è che il sintomo, invertito
di segno, di quel sogno... E quel sogno l'hai generato tu? O ne hai
solo approfittato? Non sapevi forse qual era l'unico modo di fermare
Ullikummi?»
«Ah,
lo scaltro Helel!» ghignò lei «Solo il membro del tuo divino sposo
poteva violare il ventre dell'ancella. Il coito avrebbe fatto cessare
il sogno. Ma prima aspettavi che io facessi quello in cui tu non
saresti mai riuscita, perché sei stupida come tutti gli anunnaki...
A proposito, gli altri deucoli sono davvero in missione, come dici
tu, o li hai scaraventati giù nel pozzo? Allora? Non mi ringrazi? Il
tuo figliastro non lo avresti fregato tanto facilmente!»
Dal
riparo dei suoi denti uscirono parole:
«Come
vuoi tu, signore degli inganni. E adesso fai quello che ti ho
ordinato e ti risparmierò».
Posi
anch'io mano alla spada:
«Invece
credo che sarò io a uccidervi, tutti e due, e lo scettro del tuo
sposo lo terrò come trofeo, tagliato alla radice!»
Shauska
mi rise in faccia:
«Tu
dici, uomo nero? Non saranno piuttosto le tue orecchie a fare da
pasto ai miei cani?»
«Proprio
ora» dissi «i tuoi schiavi prendono possesso degli Archivi. Il matu
è loro, adesso. Il tuo destino, mia signora Shauska, sarà il
destino di tutti gli anunnaki, stupide scimmie che giocano con giochi
non loro. Il destino del fumo nell'aria, della schiuma nell'acqua,
dell' erba nella fornace. Il destino di un pensiero causale, senza
oggetto, apparso per un attimo nella mente e poi subito dissoltosi
nel nulla, senza traccia nemmeno nella memoria sommersa che tutto
trattiene. E nella mente divina, che contempla ogni granello di
sabbia, ogni zampa d'insetto, ogni particella, per quanto piccola,
per quanto povera di energia, nella stessa mente divina voi non
sarete più».
«Stai
per morire, Helel. Non pensare alla Tavoletta, qui. Nell'Apshu è la
nostra origine. Nell'Apshu, il Tup Shimatì è solo un pezzo
d'argilla con scritta sopra una vecchia litania!»
E
con un urlo, lo stesso che agghiacciava le schiere, la dea dell'amore
e della strage, la dea che si gettava in ginocchio nel sangue dei
soldati, la dea che guazzava sino al collo nel sangue sparso, la dea
che combatteva di casa in casa, che delle viscere dei nemici faceva
collane, Shauska l'Inesorabile, Shauska Sfacelo delle Ossa, facendo
scintillare la spada che beve le anime, mi venne incontro per
uccidermi.
Tra
i guerrieri dei bei vecchi tempi l'arte della spada richiedeva
misura, azione, scelta del tempo, velocità... Ma questi dèi non
avevano mai apprezzato i formalismi, visto che per loro era
indifferente che l'avversario da abbattere avesse gambe, zampe,
radici o fondamenta. Cosa importava, a Shauska, di finte e
angolazioni, quando aveva nel braccio la potenza di una valanga e la
velocità di un fulmine? Pensai alla Tavoletta. Usare il suo vero
potere. Librarmi sopra una colonna di magma incandescente,
annichilire la valle, rivoltare l'Apshu come un guanto... Pensai a
Zuleika. Ai suoi occhi. Alle sue... persone. Impugnai la falce.
Shauska mi venne direttamente addosso, calando la spada come una
mannaia. Scartai a sinistra, e cercai di colpirla al fianco, ma la
sua lama si risollevò, bloccando la mia. Feci una capriola
all'indietro, evitando un colpo che scheggiò profondamente il
pavimento di cristallo. Lei gridò ancora, assordandomi, e balzò di
nuovo, a corpo morto. La schivai di stretta misura, e lei finì in
mezzo ai terminali, con fracasso, fumo e scintille. Molleggiai sulle
gambe, invitandola. Stavolta mirò alla testa. Mi schiacciai a terra,
come una rana, saltando nella direzione opposta alla sua, e
vibrandole di passaggio un colpo alla schiena. Non speravo certo che
il falcetto di Enki agisse su di lei come con la materia ordinaria,
ma quando vidi che non aveva accusato il colpo mi venne un dubbio
sull'esito della partita. Si fermò a guardarmi, ridendo a bocca
aperta. Goccioline di sudore argenteo sfrigolavano sui muscoli delle
spalle. Il suo corpo era rovente. Mosse in cerchio il bacino:
«Vieni
qui, Helel! Butta la spada e mettimelo dentro!»
Gettò
via l'elmo d'acciaio, e i capelli si contorsero come serpenti
infuocati.
«Spiacente»
buttai lì «ma ho paura di farti male. Ce l'ho molto più grosso di
tuo marito!»
Shauska
sghignazzò e vibrò la spada. Una nube di frantumi di legno mi seguì
nella capriola. La dea mi tallonava come un fiume in piena.
Zigzagando,
le diedi modo di sfasciare buona parte dei mobili e delle statue.
Poi, improvvisamente, mi ritrovai pressato contro un assurdo e
pesantissimo specchio verticale. Quando arrivò il colpo, ricorsi a
tutta la mia abilità non per pararlo, il che era semplicissimo, ma
per deviare il suo immane impulso verso una direttrice che non
incontrasse sulla sua strada la mia testa. Lo specchio,
letteralmente, si disintegrò, e io rotolai via. Shauska, irritata,
calò un pugno sul pavimento, solcandolo di una rete di incrini.
Ruggì e attaccò. Evitai colpi alle gambe e al corpo, e gliene
piazzai uno sul braccio destro, sfruttando al massimo le qualità del
falcetto. Lo troncai quasi di netto. La sua spada cadde. Lei mi colpì
con l'altro pugno. Atterrai, e in questo era grande letizia, sui
frantumi dello specchio. Rimettendomi in piedi, vidi con disgusto che
la ferita le si era richiusa. Mi lasciai scappare un insulto. Ridendo
a crepapelle, Shauska mi fu addosso in due balzi, roteando la spada.
Uno dei braceri, colpito, esplose in un'ondata di incenso
incandescente, riversandosi sull'altare, sul corpo inerte
dell'ancella. Nell'immobile presente dei miei sensi, vidi la guardia
di Shauska scoperta a causa dell'urto. Un colpo di falce, al massimo
della potenza. Potevo decapitarla? E quando all'eternità di
quell'istante ne successe un'altra, stavo già spingendo la ragazza
giù dall'altare, liberandola dalle braci. Il fallo di vetro che le
era sgusciato fuori dalla vagina stava ancora cadendo quando un
violentissimo urto mi mandò a sbattere contro l'altare dei
sacrifici. La spada che beve le anime, lanciata come un pugnale, mi
aveva colpito alla schiena, fuoriuscendo sul davanti, all'altezza
dello stomaco, di almeno due spanne. Caddi a sedere tra i pezzi
dell'armatura d'argento, con gran clangore di pentolame. Shauska fu
subito sopra di me. Alzai il falcetto, ma le sue dita metalliche si
chiusero sulla lama, frantumandola.
«Sai,
Helel, mi sono sempre chiesta se tu ce l'avessi, un'anima».
Si
fletté, a gambe larghe, e mi orinò addosso, dirigendo il getto di
metallo fuso sulla ferita.
«Fa
male?»
«Solo
alla mia dignità».
Rise,
stavolta in modo quasi infantile. Le sue mani mi si chiusero intorno
alla testa:
«Hai
niente in contrario se vedo cosa c'è nel tuo cranio? Circolano
versioni contrastanti...» E strinse.
Incredibile
a dirsi, sentii che le ossa parietali e temporali si stavano
dissaldando. Shauska si leccava le labbra, sbavando come un
altoforno.
L'afferrai,
e la feci cadere con il sesso sopra la lama che mi usciva dallo
stomaco. Urlò. La spada che beve le anime le risucchiò tutta la
vita attraverso la vagina. Il suo corpo divenne bianco come
porcellana, poi luminoso come una torcia, i suoi occhi esplosero, e
infine, di colpo, mi ritrovai addosso il cadavere di una ragazzina
nuda. Ero inondato di sangue. Me la tolsi di dosso. Mi levai in
piedi, mi estrassi la spada dalla schiena. Sfolgorava. Mi chinai
sull'ancella: era ancora incosciente, ma non sembrava in pericolo di
vita. Il ventre sanguinante si stava già rimarginando. Enki
continuava a sognare. Restai a fissare il sesso dell'ancella, finché
non tornò completamente integro. Mi avvicinai all'ottomana. Il
signore delle tecniche guardava oltre le mie spalle.
Con
la spada feci due tacche sulla piattaforma di cristallo. Vi puntai i
piedi e cominciai a spingere. Il trono emise un tremendo stridio, e
si spostò di buona misura. Feci altre due tacche, e spinSi ancora.
Tremante per lo sforzo, sentii che oltrepassava l'orlo della
piattaforma. Poi si inclinò, e rovesciandosi cadde nel pozzo. Enki
andò a disfarsi nell'Apshu ribollente che lo aveva generato.
Raccolsi lo scettro di vetro e gettai giù anche quello. Gettai il
corpo di Shauska, gli stendardi, l'altare, i rottami e tutte le
suppellettili rimaste incolumi. Poi fui stanco, e mi sedetti.
Sarai
mi parlava, sull'erba di una delle sette terre, e i cieli ruotavano
sopra di noi.
Io
dissi:
«Chi
ha stretto nelle sue mani il fuoco nero dei tuoi occhi?
Chi
ha impresso il suo sigillo nella tua forma?
Chi
ha imprigionato il curvarsi della palma nella tua danza?
La
tua parola ferisce
La
tua bocca dona la vita...»
NON
TOCCATE LE FIGLIE DEGLI UOMINI!
Zuleika
mi parlava:
«Sei
ferito?»
Mi
toccai la testa.
«L'ancella...»
dissi.
«L'abbiamo
portata su».
«Potrà
di nuovo danzare e suonare, se nel vostro nuovo ordine ci sarà posto
per queste cose».
«I
guardiani sono morti».
«Li
ho uccisi tutti. E voi vi siete divertiti?»
«Le
guardie ci hanno ostacolato, ma gli archivisti collaborano».
«Bene».
«Stai
morendo?»
«Che
domanda stupida».
«Ora
dobbiamo fermare la magia...»
Le
sussurai in un orecchio:
«Ti
confido un segreto: la magia non esiste!»
E
risi forte. Zuleika si tappò le orecchie.
«Ti
aiuto ad alzarti?» disse.
«Nessuna
magia. Ullikummi dorme di nuovo. I vostri dèi sono morti».
Le
braci erano spente, l'odore acuto.
Mi
gettai a terra. Baciandole i piedi, piangevo:
«Oh,
El! Non è abbastanza? Non è abbastanza?»
Zuleika
mi risollevò il volto, e mi baciò. Restammo in ginocchio, faccia a
faccia. In alto risuonò il grido di una bestia. Mi strappai il Tup
Shimatì dal petto, e l'appoggiai sul suo. Era caldo e sudato.
«Zuleika,
io ti attribuisco lo splendore divino».
Lei
allontanò la mia mano.
«Tutti
voi persone» dissi «siete sempre gli stessi... Zuleika, tu sei la
prima donna nata di donna a scendere quaggiù. Ora che hai visto
l'Apshu, che te ne pare?»
«Mi
sembra una fogna».
«Sei
sporca di sangue».
«Anche
tu».
Ci
unimmo in silenzio, dolcemente, senza spogliarci. Quando la udii
singhiozzare, alla fine, mi parve di sentire quella vita presente che
era tutto per lei e le sue persone. Ma anche questo, con la quiete
dei corpi, fu passato. Il mio seme è freddo. Io non sono una
persona. Tutto, per me, è passato. Non voglio più vedere sangue.
L'altipiano
è bellissimo.
Chi
fa piovere sopra una terra senza uomini? Su un deserto dove non c'è
nessuno? Ha un padre la pioggia?
Appesi
la Tavoletta dei Destini al collo del mio mulo:
«Io
ti conferisco lo splendore divino, e ti chiamerò Teshub!»
Il
mulo starnutì, e ci avviammo verso ovest.
febbraio 1992
vedi anche Alice nel Sottosuolo
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