di
Jean Clair
(da
De Immundo, Abscondita 2016, pagg. 11, 17-18)
A
un primo colpo d'occhio sulla riproduzione, così come la si trova in
un libro dedicato all'opera di questo artista, si esita a
comprendere. O meglio, forse si è già capito, ma ci si rifiuta di
accettare ciò che l'occhio ha appena visto. È un volto. Interamente
coperto da una materia giallastra che non lascia alcun dubbio sulla
sua natura. La testa dell'uomo che ha posato per l'opera è sepolta
sotto una colata fecale, un impiastro escrementizio. Non è la
maschera di bellezza, verde e viscosa, che nei rotocalchi femminili
si vede ricoprire il volto delle donne alla ricerca dell'eterna
bellezza, è una maschera d'infamia che suscita in noi l'orrore. Il
principio capitale del corpo umano è diventato anus mundi. Il volto
è diventato una cloaca. È quello che scopre Dante, nel canto XVIII
dell'Inferno, quando entra nella bolgia degli adulatori. Il gioco
delle maschere era stato uno dei più gradevoli che l'arte della
pittura ci avesse offerto. Maschere piacevolmente colorate degli
eleganti che rappresentavano la tromperie nel XVII secolo, piccole
maschere nere di Pietro Longhi, grandi maschere bianche, già più
inquietanti, dei Pulcinella di Giandomenico Tiepolo. Non eludevano il
faccia a faccia, l'incontro di sé e dell'altro. Nel gioco degli
equivoci, lasciavano passare il soffio della vita. Ma qui? In questa
maschera fecale che ricopre il volto e che soffoca chi la porta, di
quale faccia a faccia infernale si tratta? «Qui non ha luogo il
Santo Volto»: è a questo verso di Dante, per seguire ancora la
nostra guida, è a esso che pensa Primo Levi quando varca le porte di
Auschwitz. Qui, lo capirà immediatamente, si è nel luogo in cui gli
uomini sono considerati Dreck, pezzi di merda, come dicevano i
nazisti.
(...)
L'opera
(...) è intitolata Autoportraits. È un fatto, e bisogna misurarsi
con il fatto. L'autore si chiama David Nebreda. È nato a Madrid nel
1954. Le sue fotografie sono state esposte in alcune gallerie di
avanguardia. Per lo più egli si rappresenta a figura intera, di
prospetto, o di profilo. Quasi sempre nudo, e senza involucro
cloacale, appare cachettíco, più magro dei prigionieri che gli
americani hanno fotografato quando hanno liberato Dachau e
Buchenwald.
Su
una delle foto si vede in primo piano, in sovrimpressione, un flacone
di aloperidolo, il liquido verde fluorescente come anice o assenzio.
Nebreda è stato ricoverato in ospedale più volte, spesso per
lunghi perio-di, con una diagnosi, senza dubbio molto indefinita, di
schizofrenia paranoica. Come Daniel Paul Schreber, per intenderci.
La
maggior parte delle fotografie mostra tracce di automutilazioni,
fatte con il rasoio, con il coltello, con le forbici, bruciature di
sigaretta, lacerazioni provocate con fruste chiodate. Alcune «messe
in scena», talvolta degli aloni luminosi, dei nimbi, fanno
chiaramente pensare a estasi religiose, nella tradizione dell'arte
spagnola. L'artista non si è accontentato dello «stile» tutto
nudo, ma ha sentito il bisogno di lumeggiature, di ritocchi, di correzioni... L'informe messo in forma. Il solo materiale che egli
utilizza, dice, nel fare queste foto a colori è la cenere, e anche
tre tipi di materiale organico: sangue, urina, escrementi solidi.
L'uomo
è intelligente, colto. Si esprime in modo ricercato. Sembra avere
una chiara consapevolezza di ciò che significa il suo procedimento.
Come rendere comprensibili le sensazioni che il mio sangue e i miei escrementi producono in me? Sentimenti primari di riconoscimento, di pienezza, di gioia, di tenerezza, di remota identificazione, di amore. Li ho presi e conservati; li ho toccati, manipolati, con essi ho ricoperto il mio volto e il mio corpo. Me li sono introdotti in bocca e li ho custoditi segretamente fino al giorno del mio sacrificio...(David Nebreda, Autoportraits, Éditions Léo Scheer, Paris 2000, pag. 163)
«Riconoscimento»,
«gioia », «tenerezza », «identificazione»: siamo qui nel
registro dell'amore materno e nel tempo dei primi istanti della vita,
quando toccare, sentire, gustare i propri escrementi, significava
porre i primi limiti tra il corpo e ciò che non è il mio corpo. Ma
qui la separazione, il dono non hanno luogo. Niente è donato alla
madre. Tutto è conservato per sé. «Fino al giorno del mio
sacrificio ». Quale sacrificio? Per quale dio terribile e lontano?
Narcisismo primario. Ritenzione. Regressione. Le parole non hanno
importanza.
Parbleu ma è marron!
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