di Domenico D'Amico
Adescato
da chissà quale spirito burlone, mi ero acconciato a intrappolare la
forma perennemente mutevole e transitoria della bestia postmoderna, e
già affastellavo citazioni, frammenti, battute e bagatelle, persuaso
del mio intento virtuoso...
O
vana arroganza! O hybris!
Scioccamente
volevo equipararmi a Menelao che afferra Proteo e non lo lascia
scappare, nonostante le sue subitanee metamorfosi, finché non
accetta di prestargli le sue facoltà divinatorie.
Ma,
ohimè, lo stesso spirito che, con l'ausilio di antiche, corrucciate
divinità, svelò il terribile
arcano dell'Antiedipo, ora ansima stremato, schiacciato dal
sigillo inesorabile di una carne in disfacimento!
Che
ne è ormai di te, antica testa di sciacallo!
Voglio
dire, di ibis!
Eppure,
in questa picciola vigilia dei miei sensi, l'avevo trovato il
tombino-iscrizione da inchiavardare sulla stiva ribollente del
postmodernismo, poststrutturalismo, postsinistrismo e quant'altro.
È
il decostruzionismo!
E
anche, simmetricamente, qual è il bersaglio, esplicitato o nascosto,
di tutto questo bric-a-brac di pensiero insalataro.
È
il logocentrismo!
Come
dice Derrida,
“la decostruzione del logocentrismo non si può separare dalla
decostruzione dell'autorità e del privilegio della presenza, sia
spaziale e temporale”.
Ora,
la critica, anzi, la decostruzione del logocentrismo ha implicazioni
sia filosofiche sia politiche:
Questo
è il luogo opportuno in cui collocare l'intervento operato da
Derrida con Della Grammatologia. Chi si occupa di teorie
critiche sa che si tratta di una critica del "logocentrismo";
quel che viene meno sovente ricordato è che i termini della critica
in apertura annunciano l'intenzione di porre l'attenzione sulla
dimensione di "etnocentrismo" del logocentrismo che,
secondo Derrida, non è stato che "il più originale e il più
potente etnocentrismo sul punto di imporsi oggi al pianeta"
(Derrida 1967a, p. 19).
(…)
La
rinomata decostruzione operata in La struttura, il segno e il
gioco rivela come la costituzione di un sapere antropologico, per
quanto esso sia frequentemente esibito come scientifico e oggettivo,
rimanga nondimeno governata da una problematica che esso non coglie:
la categoria filosofica del centro, che Derrida mette poi in
relazione con il problema dell'eurocentrismo (Derrida 1967c, pp.
278-293).
(…)
Se
si dovesse dunque rispondere alla domanda generale su che cosa sia
oggetto di decostruzione nel decostruzionismo, la risposta sarebbe:
il concetto, l'autorità, e la presunta primarietà della categoria
di "Occidente".
Se
si inserisce il decostruzionismo nel più generale contesto dei
tentativi volti a decolonizzare le forme del pensiero europeo, il
pensiero di Derrida apparirà, in tale ottica, tipicamente
postmoderno. Il modo migliore di intendere il postmodernismo è di
vedervi la consapevolezza europea di non rappresentare più il centro
incontestato e dominante della scena mondiale.
(Robert
J. C. Young, Mitologie Bianche. La Scrittura della Storia e
l'Occidente, Meltemi 2007, pagg. 85-86)
Questo
spirito “anticoloniale”, tuttavia, non impedisce al filosofo
decostruzionista di contemplarsi l'ombelico:
[rileggere
questi testi] significa non soltanto chiedersi che cosa ne è oggi
della “decostruzione”, precisamente nel senso che Derrida
attribuiva a questa espressione, ma anche cercare di collocare
storicamente questa domanda. Collocarla storicamente, non soltanto
nel quadro della filosofia francese contemporanea [...], bensì
rispetto alla profonda trasformazione che la società occidentale ha
subito negli ultimi quarant’anni con lo sviluppo della tecnologia
digitale, quella che è stata definita la softwarizzazione della
società. Evento, questo, connesso alla scrittura nel suo senso più
proprio, cioè la trace, la messa in questione della linearità
della scrittura alfabetica e quindi della metafisica della presenza,
del logocentrismo e del fallo-logocentrismo.
(da
una presentazione
di un testo di Derrida)
È
banale, ma notate come tutto questo si ponga letteralmente in un
altro universo rispetto alla bruta realtà materiale (economica,
politica, geostrategica, militare) dei popoli che sono nei fatti
vittime dell'imperialismo occidentale.
Ed
è altrettanto banale constatare l'identificazione della cultura
occidentale nella sua totalità con la guerra
imperial-colonial-capitalistica.
Ci
siamo abituati.
L'Occidente,
con la sua storia di guerre, stragi, genocidi eccetera, è una notte
dove i gatti sono tutti grigi. L'Illuminismo è stata una tragedia,
il comunismo anche peggio di Hitler (eh, questi totalitarismi, e sta
minchia di cinesi!), e in ogni caso Scienza=Auschwitz. E il canone
occidentale? Sì, quello dei “vecchi
maschi bianchi morti”?
Niente sprechi! I cadaveri sono forza lavoro!
La
cosa buffa è che, a tutt'oggi, la critica radicale al logocentrismo
“etnocentrico” convive felicemente col più spietato capitalismo
coloniale: il New York Times lancia una colossale
iniziativa culturale-educativa che condanna senza se e senza ma
tutta la storia degli USA in quanto razzista alla radice, e nello
stesso tempo suona la fanfara per tutte le guerre e le sanzioni
genocide di Washington.
Nel
microcosmo, poi, abbiamo la studentessa janqui nera che non vive
notti insonni pensando alla gente che il suo governo vuole uccidere
in Venezuela, in Iran, in Siria eccetera, ma si interroga sul
razzismo esperito in Italia, e sul fatto che quelli che le avevano
parlato bene del paese erano tutti bianchi, che sentirsi apostrofare
“Beyoncé” è sminuente, eccetera.
In
ogni caso, se il male deriva dalla cultura occidentale nel suo
insieme, allora siamo un po' tutti nella stessa barca: Ronald Reagan
sta insieme a Donizetti, Margaret Thatcher è uguale alla Montessori,
Tom Clancy è la stessa cosa di Mark Twain (anzi Twain è peggio, usa
anche la parola “nigger”!), e, ci mancherebbe, vaccini=Olocausto.
Anzi,
visto che non possiamo debellare Mike Pompeo, proviamo a “espungere”
Dante
dal nostro curriculum, oppure liberiamoci di un razzista pedofilo
come Paul
Gauguin, e se non possiamo “espungere” nefasti prodotti
occidentali come Piazza della Signoria, possiamo comunque sbattergli
in faccia un mucchio
di stronzi (ci sarà dietro un messaggio nascosto?).
E
pensare che noi libertini decadenti nichilisti crepuscolari (tra i
quali l'incommensurabile facocèro Cammarota) abbiamo una vera
passione per la merda. Ma è la merda alchemica della putrefactio,
è la merda di Apollinaire e Pierre Louÿs (e di Dante), non quella
che si spalma addosso l'alienato.
Una qualsiasi Aurora Consurgens
Ah già, dimenticavo, la malattia mentale non esiste, è solo un modo eccentrico, marginale, nomadico di percepire il reale.
[C'è
anche qualcosa di moralmente riprovevole nella critica
decostruzionista: dal momento che la distinzione tra autore e lettore
– leggi critico – è illusoria, be', allora anche l'ultimo degli
affabulatori di facoltà può sentirsi primus inter pares con
Tolstoj e Dostoevskij, e mica per narcisismo o vanità personale, non
sia mai, lo dice la Teoria!]
Ma
torniamo a noi, con la rappresentazione più icastica
dell'anti-logocentrismo etnocentrico: l'architettura decostruzionista
(o decostruttivista).
L'architetto
decostruzionista non è un miserabile mercenario che deve soddisfare
le esigenze del committente.
È
un artista.
Secondo
Derrida, le letture dei testi sono meglio eseguite quando si lavora
con strutture narrative classiche. Ogni decostruttivismo
architettonico richiede l’esistenza di una particolare costruzione
archetipica, un’attesa convenzionale consolidata per giocare in
modo flessibile contro. Il progetto della residenza di Santa Monica
di Frank Gehry, (del 1978), è stato citato come un prototipo di
edificio decostruttivista. Il suo punto di partenza era una
prototipica casa suburbana incarnata da un tipico insieme di
significati sociali previsti. Gehry ha modificato il suo
ammassamento, gli involucri spaziali, i piani e le altre aspettative
in una sovversione giocosa, un atto di “costruzione”.
(Fonte)
Lo
spirito del decostruzionismo si manifesta in modo particolarmente
“sincero” quando guardiamo alle sue interazioni con edifici
preesistenti.
Daniel Libeskind - Museo Ebraico di Berlino
C'è
un'entità che aggredisce un'altra entità. Per la precisione, una
forma di non-vita che addenta una forma di vita.
L'oggetto
decostruzionista non è un parassita, non sta sfruttando o
approfittando o dissanguando l'oggetto tradizionale.
L'oggetto
decostruzionista reca la morte nel cuore dell'oggetto tradizionale.
È
l'inorganico che mette sotto scacco il corpo.
Il
decostruzionismo è il ghiaccio di Cocito.
[E
c'è di più, se volete assecondare una mia ulteriore scappatella
nella burletta pseudo-esoterica.]
Cosa
vediamo qui?
(...)
Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all'assalto.
(...)
Il loro re era l'angelo dell'Abisso, che in ebraico si chiama Perdizione, in greco Sterminatore.
(Apocalisse di Giovanni, 7)
Ecco la Cavalletta dell'Apocalisse (oggetto infernale)
che stupra la memoria culturale (oggetto umano).
Dixi.
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