domenica 17 maggio 2020

Rapsodia Decostruzionista


di Domenico D'Amico


Adescato da chissà quale spirito burlone, mi ero acconciato a intrappolare la forma perennemente mutevole e transitoria della bestia postmoderna, e già affastellavo citazioni, frammenti, battute e bagatelle, persuaso del mio intento virtuoso...
O vana arroganza! O hybris!
Scioccamente volevo equipararmi a Menelao che afferra Proteo e non lo lascia scappare, nonostante le sue subitanee metamorfosi, finché non accetta di prestargli le sue facoltà divinatorie.
Ma, ohimè, lo stesso spirito che, con l'ausilio di antiche, corrucciate divinità, svelò il terribile arcano dell'Antiedipo, ora ansima stremato, schiacciato dal sigillo inesorabile di una carne in disfacimento!
Che ne è ormai di te, antica testa di sciacallo!
Voglio dire, di ibis!
Eppure, in questa picciola vigilia dei miei sensi, l'avevo trovato il tombino-iscrizione da inchiavardare sulla stiva ribollente del postmodernismo, poststrutturalismo, postsinistrismo e quant'altro.
E anche, simmetricamente, qual è il bersaglio, esplicitato o nascosto, di tutto questo bric-a-brac di pensiero insalataro.
È il logocentrismo!
Come dice Derrida, “la decostruzione del logocentrismo non si può separare dalla decostruzione dell'autorità e del privilegio della presenza, sia spaziale e temporale”.
Ora, la critica, anzi, la decostruzione del logocentrismo ha implicazioni sia filosofiche sia politiche:

Questo è il luogo opportuno in cui collocare l'intervento operato da Derrida con Della Grammatologia. Chi si occupa di teorie critiche sa che si tratta di una critica del "logocentrismo"; quel che viene meno sovente ricordato è che i termini della critica in apertura annunciano l'intenzione di porre l'attenzione sulla dimensione di "etnocentrismo" del logocentrismo che, secondo Derrida, non è stato che "il più originale e il più potente etnocentrismo sul punto di imporsi oggi al pianeta" (Derrida 1967a, p. 19).
(…)
La rinomata decostruzione operata in La struttura, il segno e il gioco rivela come la costituzione di un sapere antropologico, per quanto esso sia frequentemente esibito come scientifico e oggettivo, rimanga nondimeno governata da una problematica che esso non coglie: la categoria filosofica del centro, che Derrida mette poi in relazione con il problema dell'eurocentrismo (Derrida 1967c, pp. 278-293).
(…)
Se si dovesse dunque rispondere alla domanda generale su che cosa sia oggetto di decostruzione nel decostruzionismo, la risposta sarebbe: il concetto, l'autorità, e la presunta primarietà della categoria di "Occidente".
Se si inserisce il decostruzionismo nel più generale contesto dei tentativi volti a decolonizzare le forme del pensiero europeo, il pensiero di Derrida apparirà, in tale ottica, tipicamente postmoderno. Il modo migliore di intendere il postmodernismo è di vedervi la consapevolezza europea di non rappresentare più il centro incontestato e dominante della scena mondiale.
(Robert J. C. Young, Mitologie Bianche. La Scrittura della Storia e l'Occidente, Meltemi 2007, pagg. 85-86)

Questo spirito “anticoloniale”, tuttavia, non impedisce al filosofo decostruzionista di contemplarsi l'ombelico:

[rileggere questi testi] significa non soltanto chiedersi che cosa ne è oggi della “decostruzione”, precisamente nel senso che Derrida attribuiva a questa espressione, ma anche cercare di collocare storicamente questa domanda. Collocarla storicamente, non soltanto nel quadro della filosofia francese contemporanea [...], bensì rispetto alla profonda trasformazione che la società occidentale ha subito negli ultimi quarant’anni con lo sviluppo della tecnologia digitale, quella che è stata definita la softwarizzazione della società. Evento, questo, connesso alla scrittura nel suo senso più proprio, cioè la trace, la messa in questione della linearità della scrittura alfabetica e quindi della metafisica della presenza, del logocentrismo e del fallo-logocentrismo.
(da una presentazione di un testo di Derrida)

È banale, ma notate come tutto questo si ponga letteralmente in un altro universo rispetto alla bruta realtà materiale (economica, politica, geostrategica, militare) dei popoli che sono nei fatti vittime dell'imperialismo occidentale.
Ed è altrettanto banale constatare l'identificazione della cultura occidentale nella sua totalità con la guerra imperial-colonial-capitalistica.
Ci siamo abituati.
L'Occidente, con la sua storia di guerre, stragi, genocidi eccetera, è una notte dove i gatti sono tutti grigi. L'Illuminismo è stata una tragedia, il comunismo anche peggio di Hitler (eh, questi totalitarismi, e sta minchia di cinesi!), e in ogni caso Scienza=Auschwitz. E il canone occidentale? Sì, quello dei “vecchi maschi bianchi morti”?

Niente sprechi! I cadaveri sono forza lavoro!

La cosa buffa è che, a tutt'oggi, la critica radicale al logocentrismo “etnocentrico” convive felicemente col più spietato capitalismo coloniale: il New York Times lancia una colossale iniziativa culturale-educativa che condanna senza se e senza ma tutta la storia degli USA in quanto razzista alla radice, e nello stesso tempo suona la fanfara per tutte le guerre e le sanzioni genocide di Washington.
Nel microcosmo, poi, abbiamo la studentessa janqui nera che non vive notti insonni pensando alla gente che il suo governo vuole uccidere in Venezuela, in Iran, in Siria eccetera, ma si interroga sul razzismo esperito in Italia, e sul fatto che quelli che le avevano parlato bene del paese erano tutti bianchi, che sentirsi apostrofare “Beyoncé” è sminuente, eccetera.
In ogni caso, se il male deriva dalla cultura occidentale nel suo insieme, allora siamo un po' tutti nella stessa barca: Ronald Reagan sta insieme a Donizetti, Margaret Thatcher è uguale alla Montessori, Tom Clancy è la stessa cosa di Mark Twain (anzi Twain è peggio, usa anche la parola “nigger”!), e, ci mancherebbe, vaccini=Olocausto.
Anzi, visto che non possiamo debellare Mike Pompeo, proviamo a “espungere” Dante dal nostro curriculum, oppure liberiamoci di un razzista pedofilo come Paul Gauguin, e se non possiamo “espungere” nefasti prodotti occidentali come Piazza della Signoria, possiamo comunque sbattergli in faccia un mucchio di stronzi (ci sarà dietro un messaggio nascosto?).
E pensare che noi libertini decadenti nichilisti crepuscolari (tra i quali l'incommensurabile facocèro Cammarota) abbiamo una vera passione per la merda. Ma è la merda alchemica della putrefactio, è la merda di Apollinaire e Pierre Louÿs (e di Dante), non quella che si spalma addosso l'alienato.


Una qualsiasi Aurora Consurgens

Ah già, dimenticavo, la malattia mentale non esiste, è solo un modo eccentrico, marginale, nomadico di percepire il reale.
[C'è anche qualcosa di moralmente riprovevole nella critica decostruzionista: dal momento che la distinzione tra autore e lettore – leggi critico – è illusoria, be', allora anche l'ultimo degli affabulatori di facoltà può sentirsi primus inter pares con Tolstoj e Dostoevskij, e mica per narcisismo o vanità personale, non sia mai, lo dice la Teoria!]
Ma torniamo a noi, con la rappresentazione più icastica dell'anti-logocentrismo etnocentrico: l'architettura decostruzionista (o decostruttivista).
L'architetto decostruzionista non è un miserabile mercenario che deve soddisfare le esigenze del committente.
È un artista.

Secondo Derrida, le letture dei testi sono meglio eseguite quando si lavora con strutture narrative classiche. Ogni decostruttivismo architettonico richiede l’esistenza di una particolare costruzione archetipica, un’attesa convenzionale consolidata per giocare in modo flessibile contro. Il progetto della residenza di Santa Monica di Frank Gehry, (del 1978), è stato citato come un prototipo di edificio decostruttivista. Il suo punto di partenza era una prototipica casa suburbana incarnata da un tipico insieme di significati sociali previsti. Gehry ha modificato il suo ammassamento, gli involucri spaziali, i piani e le altre aspettative in una sovversione giocosa, un atto di “costruzione”.

Lo spirito del decostruzionismo si manifesta in modo particolarmente “sincero” quando guardiamo alle sue interazioni con edifici preesistenti.



Daniel Libeskind - Museo Ebraico di Berlino

Daniel Libeskind - Aggiunte al Royal Ontario Museum di Toronto


Daniel Libeskind - Museo di Storia Militare, Dresda


Coop Himmelb(l)au - Energy Roof, Perugia 

Abbiamo di fronte un processo in atto, dinamico.
C'è un'entità che aggredisce un'altra entità. Per la precisione, una forma di non-vita che addenta una forma di vita.
L'oggetto decostruzionista non è un parassita, non sta sfruttando o approfittando o dissanguando l'oggetto tradizionale.
L'oggetto decostruzionista reca la morte nel cuore dell'oggetto tradizionale.
È l'inorganico che mette sotto scacco il corpo.
Il decostruzionismo è il ghiaccio di Cocito.
[E c'è di più, se volete assecondare una mia ulteriore scappatella nella burletta pseudo-esoterica.]

Zaha Hadid - Ristrutturazione della Camera del Porto di Anversa



Cosa vediamo qui?

Queste cavallette avevano l'aspetto di cavalli pronti per la guerra.
(...)
Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all'assalto.
(...)
Il loro re era l'angelo dell'Abisso, che in ebraico si chiama Perdizione, in greco Sterminatore.
(Apocalisse di Giovanni, 7)


Ecco la Cavalletta dell'Apocalisse (oggetto infernale) che stupra la memoria culturale (oggetto umano).
Dixi.

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