sabato 17 febbraio 2018

Mio Padre Si Chiama Lenin

di Domenico D'Amico

«Mio padre si chiama Lenin».
«Ti stai ripetendo» mi rimbrottò il Dottore «Anzi, ti stai rimbambendo».
Lo guardai con sconcerto misto ad animosità, ma dovetti ammettere con me stesso che aveva ragione, e annuii asciuttamente.
«E allora?»
La mia era una domanda retorica: che puoi fare contro il rammollimento cerebrale se non toccare ferro e sperare di non beccarsi una demenza fulminante?
«So io cosa ci vuole, per te!» affermò invece il Dottore, sorprendendomi.
«Mi rifiuto categoricamente di fare un clistere di curcuma!»
«In fondo è banale» continuò, ignorando il mio sarcasmo «Un muscolo che non è attivo si atrofizza, e questo vale per qualsiasi azione o processo. Quindi, ipoteticamente, dovrebbe valere anche per quello che resta del tuo cervello».
«Niente curcuma?»
«Ma guardati, la pelle della faccia cascante, l'occhio appannato, mezzo rincretinito...»
«Anche lei è un bell'uomo, dottore, ma mai quanto Franco Strocchi».
«Non nominare Franco Strocchi!»
«Franco Strocchi, Franco Strocchi, Franco Strocchi, FRANCO STROCCHI!»
«Lasciamo perdere! Stavo dicendo: ho io l'esercizio giusto per ricablare la tua mente deteriorata...»
«E sarebbe?»
Ero diventato guardingo, perché il Dottore aveva assunto il tono che utilizza quando ha una delle sue grandi idee, le quali idee comportano (sempre) sforzi immensi e (spesso) danni fisici per i terzi coinvolti, terzi che di solito consistono in me solo.
«Hai letto Siddhartha?» alitò il dottor Cilli con solennità.
Ero perplesso: cos'era, la sua, una critica? Un velato riferimento alla stramberia di qualcuno che, da ragazzo, non leggeva Kerouac o Tolkien ma Dostoevskij e Restif de la Bretonne?
«No» risposi, molto sospettoso.
«Benissimo! Adesso tu, di tua spontanea iniziativa, affiderai a te stesso l'incarico di leggere il romanzo di Hesse e di trarne qualche considerazione significativa, o che almeno lo sembri... E, sì, niente di meglio di una bella documentazione video di questo tuo esercizio!»
«Non capisco perché dovrei fare una cosa del genere!»
«Te l'ho detto, ti ringalluzzirà l'intelletto».
«Magari a me la nebbia nel cervello piace».
«Non ti preoccupare, ti sarò accanto passo dopo passo».
«È proprio questo che mi preoccupa, invece...»
«È per il tuo bene».
«Non puoi costringermi!»
«SONO IL TUO PSICHIATRA!»
«Be', se la metti così...»

E abbiamo cominciato a fare questi video.
Qui ne vorrei riproporre qualcuno, e vorrei cominciare proprio con Siddhartha di Hermann Hesse, aggiungendo, a seguire, una paio di riflessioni su reincarnazione e film con personaggi angelici.

Hermann Hesse, Siddhartha - Analisi e commento - Parte I


Hermann Hesse, Siddhartha - Analisi e commento - Parte II


Hermann Hesse - Siddhartha - Analisi e Commento - Parte III


Tenevo a sottolineare la differenza radicale che, a suo tempo, era emersa tra la visione (induista o buddista) del ciclo delle esistenze e quella ascrivibile alla variegata compagine cosiddetta New Age.
Il concetto di reincarnazione orientale (e, in parte, anche quello occidentale della cultura classica) è un concetto tragico. Vivere e rivivere è una colossale fregatura, tant'è vero che la salvezza consiste nel venirne fuori, e a questo servono gli insegnamenti di Buddha. Nella prospettiva New Age, al contrario, la reincarnazione è un'idea consolatoria: ehi, sono stato un pirata dei Caraibi e anche un sacerdote babilonese, cool!
Qual è la radice di questa differenza?
Può essere utile un ulteriore accostamento, quello tra due opere cinematografiche che raccontano storie simili (l'intervento di un angelo nella vita di un essere umano), ma in modi altrettanto distanti.
Si tratta del celeberrimo La Vita È Meravigliosa (It's a Wonderful Life, Frank Capra 1946) e del meno noto Michael (Michael, Nora Ephron 1996). In entrambi i film, gli angeli operano una sorta di miracolo atto a mostrare agli esseri umani una determinata verità.
Nel film di Capra questa verità (grosso modo) è che le esistenze delle persone sono inesorabilmente intrecciate, che le azioni e le scelte individuali hanno conseguenze sociali, e che felicità e comunità sono consustanziali.
Nell'opera di Ephron la prospettiva è individuale fino al solipsismo. L'angelo interviene per sbloccare emotivamente l'essere umano e permettergli così di avere una relazione sentimentale. Tutto qui. Non c'è trama di relazioni, non c'è interdipendenza, «there's no such thing as society».
Non c'è da meravigliarsi se nel primo caso il miracolo comporta la visione distopica della comunità in cui vive il protagonista (mostrata come sarebbe se lui non fosse mai nato), mentre nel secondo il miracolo è... la resurrezione di un cane.
A questo punto è evidente in cosa risiede la differenza: nell'integralismo individualistico della cultura capitalistica, totalmente incapace di concepire pensieri comunitari. L'altro non esiste, o se esiste è un avversario, un concorrente.
Quindi possiamo bombardarlo, no?


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