mercoledì 13 giugno 2018

In Exitu




Quando, alla fine, il dottor Cilli poté posare lo sguardo su Domenico, fece fatica a riconoscerlo.

Del resto, anche la fattoria di Ipazia era cambiata. Dieci anni, rifletté il Dottore... Dopo l'Isola dei Ratti, dopo la latitanza, dopo l'amnistia, ecco, dieci anni sono stati un attimo.
E aveva sprecato altro tempo a cercare il compagno, per poi scoprire che si era stabilito nel luogo più ovvio, quello che aveva tante volte designato come sua sperata meta finale.
Da Ipazia c'erano più serre e meno armi. Dopo i Moti di Ferragosto, che comunque avevano appena lambito la regione, quello era un periodo di assestamento. Addirittura, linee elettriche e telefoniche funzionavano quasi tutti i giorni. E la stessa Matriarca, anche se prossima al centenario, sembrava la stessa di vent'anni prima.
«Pensavo che fossi morto» gli aveva detto sorridendo.
Nel nuovo prefabbricato adibito a mensa, la luce del sole versava il suo tenue bagliore attraverso le finestrelle quadrate. Il Dottore teneva le mani attorno alla ciotola colma di zuppa. Era grato per il calore, ma non aveva il minimo appetito.
«È un pettegolezzo che ho messo in giro io» disse, anche lui sorridendo.
«Be', comunque hai un aspetto orrendo» ribatté Ipazia.
«Grazie. Invece tu devi aver fatto un patto col diavolo...»
«Ne ho fatti cento, se è per questo» Ipazia fece una pausa «Ti direi di riposare un po', di farti una doccia, ma scommetto che vorrai andare subito da lui».
Il Dottore raddrizzò la schiena, sospirando. Dominò i brividi che gli percorrevano la pelle e le fitte a braccia e gambe, e si levò in piedi.
«Sì, se non ti dispiace» disse.

La veranda guardava a est, al mare, e il sole, a un quarto del suo tragitto, intiepidiva l'aria dell'inverno, nonostante il velo di caligine. Tettoia e impiantito erano essenziali, fatti di legname riciclato, ma le superfici erano decorate con un armonioso florilegio di stencil che evocavano una bizzarra ma piacevole atmosfera russa. Domenico era lì, in fondo, adagiato su una sedia a sdraio resa invisibile dal viluppo di coperte che ricoprivano il corpo del malato.
Quando il dottor Cilli riuscì a posare lo sguardo su Domenico, fece fatica riconoscerlo.
In altezza, era rimasto il titano frutto dei retrovirus del dottor Lorca, tanto che i piedi sporgevano in fuori fin quasi agli stinchi. Ma il gonfiore delle coperte non era in grado di mascherare lo sfacelo sottostante. Le membra possenti, scimmiesche, erano svanite, lasciandosi dietro un insieme sminuito di ossa e tendini.
Ma era stato il volto a creare il maggiore sconcerto nel Dottore. Nella sua vita aveva visto un gran numero di malati terminali, e conosceva molto bene l'indecenza con cui la morte in arrivo può sfigurare gli esseri umani. Ma quella faccia non era la faccia del suo compagno. La pelle, grigiastra e raggrinzita, si stirava sulle ossa del cranio formando lunghe pieghe che sembravano lì lì per lacerarsi, e sugli zigomi e sul naso, ridotto a una floscia appendice necrotica, aveva assunto una colorazione violacea prossima al nero. Pieghe di pelle, come colature di cera, coprivano parzialmente gli occhi infossati.
Essi rimasero chiusi, malgrado il passo del Dottore avesse prodotto, nell'avvicinarsi alla sdraio, parecchi scricchiolii.
Forse è già morto, pensò il Dottore. Ma non riusciva a decidere se, nel caso, sarebbe stato meglio così. Quando gli occhi si aprirono e guardarono verso di lui, però, capì che no, non sarebbe stato meglio.
L'espressione del dottor Cilli, modulata su un lieve sorriso, non fece trapelare nemmeno il più piccolo segno di scoramento.
«Ti vedo veramente di merda» disse.
«Anche tu hai un aspetto del cazzo» replicò Domenico. Le parole erano un po' biascicate, ma erano rapide e precise. Dentro la carcassa lo spirito era ancora vivace.
Accanto alla sdraio c'era una sedia da giardino vecchia di almeno trent'anni, con la plastica biancastra che denudava in molti punti il ferro arrugginito. Il Dottore vi si sedette, e prese la mano destra di Domenico tra le sue. Sembrava di afferrare un grosso, vuoto guanto di pelle.
La mente dell'ex titano non era completamente lucida (Ipazia non negava gli antidolorifici ai moribondi come faceva Madre Teresa di Calcutta), perché disse: «Grazie per avermi salvato, di nuovo».
Ma il Dottore conosceva bene il senso di quell'affermazione, che l'amico aveva fatto molte volte. Secondo Domenico, lo psichiatra lo aveva tirato fuori dall'abisso una prima volta quando, alla fine degli anni 80, le orribili esperienze militari lo avevano trascinato verso la psicosi. Su questo, il dottor Cilli era d'accordo, per quanto attribuisse il ritorno di Domenico a un equilibrio mentale passabilmente stabile un fatto, almeno per metà, di pura fortuna. Quanto all'altro salvataggio... Gli veniva da ridere a sentire l'amico descrivere il ventennio di vero calvario in cui l'aveva trascinato, con tutta la violenza, i lutti e l'odio che entrambi avevano dovuto condividere, descrivere quella lunga guerra come una seconda salvezza...
«E scusa per il cattivo odore...»
Stavolta il Dottore rise davvero, ma poi capì.
Domenico non aveva mai mostrato il minimo disagio per il puzzo delle camerate, per il fetore che avvolge i soldati in lunga attesa, per il soffocante sentore di un tunnel affollato (come quelli dell'Isola dei Ratti, dimora di entrambi per anni interi): poteva nascondersi in un montarozzo di rifiuti o imbrattarsi di letame per sviare una muta di segugi, e non fare una piega.
Ma l'odore della malattia lo mandava quasi nel panico. Quando, per qualche seduta, avevano dovuto utilizzare un locale disponibile in una casa di riposo privata, Domenico era stato sulle spine tutto il tempo. L'aria del luogo, che mescolava il disinfettante al residuo fecale, gli procurava una profonda angoscia, aveva confessato poi. Niente di strano, aveva osservato lo psichiatra: è la paura della morte, non quella violenta e istantanea di una pallottola, ma quella si avvicina e avanza, come acqua che sale. E si era portato Domenico sulle scale di emergenza, a fumare una sigaretta.
Quello che l'orco abruzzese non aveva avuto mai la forza di sopportare, invece, era l'odore di certi pazienti del Dottore, le volte che gli era capitato di incontrarli. Da un certo punto di vista, lo psichiatra lo capiva benissimo. Anche per lui era faticoso trattare coi soggetti gravemente psicotici, capaci di non lavarsi per mesi, anzi, per anni. A volte aveva la netta impressione che quel puzzo, simile a un miasma oleoso, gli aderisse sulla pelle e gli entrasse dentro. Anche per lui c'erano stati momenti di umore atrabiliare, durante i quali non c'era acqua bollente e sapone disinfettante sufficienti a eliminare le tracce di quel fetore.
Perché, come aveva detto una volta Domenico, non era odore di sudiciume, odore di sterco, odore di carogna: era l'odore della follia.
Ma al momento, era chiaro, l'amico si riferiva al leggero effluvio del pannolone, in realtà trascurabile. Anche perché, allineati sotto il bordo dell'impiantito di legno, dove la veranda lasciava spazio al terreno dolcemente declinante, mantenuto compatto da un'erbetta ben tenuta, erano allineati alcuni vasi scompagnati, rigogliosi di menta piperita, lavanda, timo e aglio del Galles. In quell'aria fresca, il leggero odore di feci emanato da Domenico non era più un'offesa, un triste segno di condanna per ogni creatura vivente, ma quasi un aroma tra gli altri, come lo stallatico in campagna, non uno scandalo, ma una innocua, indifferente normalità.
E meno male che ti sto sottovento, che dopo una settimana di viaggio sai che rose e fiori!

Alla base del declivio, una cinquantina di metri più in basso, galline razzolavano e bambini si rincorrevano. Il Dottore sorrise tra sé, ripensando al tempo in cui quel posto sembrava un collegio femminile sui generis: il collegio era cresciuto, aveva prosperato, germogliato, fruttato, era diventato una comunità.
«Li senti?»
Domenico sembrava aver riacquistato un po' di forza.
«Loro, dici?» Chiese il Dottore, alludendo a infanzia e pollame.
Domenico si risistemò sul suo giaciglio: una grossa gruccia con appeso un enorme cappotto floscio.
«Sì» disse «È un desiderio che si avvera. Morire ascoltando i bambini che giocano...»
In effetti questo era un argomento di cui i due amici, nel corso degli anni, avevano parlato periodicamente. Il Dottore chiuse gli occhi. La convessità del terreno disperdeva e mescolava i suoni, e si sarebbe detto che davanti a loro, a una distanza indeterminata, strepitasse una schiera di piccoli uccelli.
«Ricordi quanto ci faceva incazzare il pensiero della morte?» Riprese l'orco.
«Me ne ricordo, eccome. Perché, ti sei convertito? Hai visto la luce? Hai visto Padre Pio?»
«No, p***o Dio» ridacchiò Domenico «Anzi. Resta tutto come prima, l'angoscia, il terrore del nulla che mi aspetta, l'impossibilità di concepirlo...»
«E allora?»
«E allora... Sono così stanco. Potrei provare quelle emozioni, la paura, l'orrore... Ma non ce la faccio più. So che me ne sto andando, ma non ho più la forza di spaventarmi. Sono talmente esausto che nient'altro conta».
«Buon per te» disse il Dottore, stringendo di più la mano dell'amico.
«E ti ringrazio, perché così posso addormentarmi in pace, con un amico al fianco, in una casa che mi ha dato rifugio, e i bambini, e la luce, e questo buon profumo...»
Il Dottore restò in silenzio, ad ascoltare il sottile raspìo emesso da Domenico. Il fiato entrava e usciva, entrava e usciva, entrava e usciva, sempre più lieve. Poi, alla fine, a malapena udibile, venne emesso l'ultimo filo d'aria.

Il Dottore, immobile, si accorse di versare lacrime, senza volerlo, senza deciderlo. Come una pietra.
Si disse che aveva fatto benissimo a non dire a Domenico che anche lui aveva i giorni, anzi, le ore contate. La disfunzione multiorgano derivata dagli attacchi chimici scatenati dalla Coalizione contro l'Isola dei Ratti, incombente negli ultimi anni, si era finalmente manifestata.
Anche lui era venuto da Ipazia per avere una casa in cui finire il suo tempo. Aveva perso tutte le persone che amava, e lo stesso desiderio di giustizia, per lui indistinguibile dalla vita stessa, lo aveva abbandonato. No, era meglio dire che era volato via, pertinenza di altri, altre persone e altri luoghi. In quell'istante, lì, accanto al suo amico morto, quello era tutto il suo universo.
Ripensò di nuovo alle chiacchierate sulla paura della morte. Il suo personale rimpianto era sempre stato quello di non esserci per vedere come sarebbero andate le cose, non sapere cosa sarebbe successo di lì a cinquant'anni, di lì a un secolo, un millennio.
Ma chissà, pensò porgendo orecchio alla lieta gazzarra di bambini e galline, forse questo è tutto il futuro che c'è, quello che conta, quello che vale la pena di conoscere...
E, ignorando il dolore che gli trafiggeva le membra, si abbandonò sulla sedia, appoggiando la nuca contro il legno tiepido, e chiuse gli occhi.
Le mani dei due amici erano ancora unite.



Villa Carmine, dicembre 2017

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