Quando,
alla fine, il dottor Cilli poté posare lo sguardo su Domenico, fece
fatica a riconoscerlo.
Del
resto, anche la fattoria di Ipazia era cambiata. Dieci anni,
rifletté il Dottore... Dopo l'Isola dei Ratti, dopo la latitanza,
dopo l'amnistia, ecco, dieci anni sono stati un attimo.
E
aveva sprecato altro tempo a cercare il compagno, per poi scoprire
che si era stabilito nel luogo più ovvio, quello che aveva tante
volte designato come sua sperata meta finale.
Da
Ipazia c'erano più serre e meno armi. Dopo i Moti di Ferragosto, che
comunque avevano appena lambito la regione, quello era un periodo di
assestamento. Addirittura, linee elettriche e telefoniche
funzionavano quasi tutti i giorni. E la stessa Matriarca, anche se
prossima al centenario, sembrava la stessa di vent'anni prima.
«Pensavo
che fossi morto» gli aveva detto sorridendo.
Nel
nuovo prefabbricato adibito a mensa, la luce del sole versava il suo
tenue bagliore attraverso le finestrelle quadrate. Il Dottore teneva
le mani attorno alla ciotola colma di zuppa. Era grato per il calore,
ma non aveva il minimo appetito.
«È
un pettegolezzo che ho messo in giro io» disse, anche lui
sorridendo.
«Be',
comunque hai un aspetto orrendo» ribatté Ipazia.
«Grazie.
Invece tu devi aver fatto un patto col diavolo...»
«Ne
ho fatti cento, se è per questo» Ipazia fece una pausa «Ti direi
di riposare un po', di farti una doccia, ma scommetto che vorrai
andare subito da lui».
Il
Dottore raddrizzò la schiena, sospirando. Dominò i brividi che gli
percorrevano la pelle e le fitte a braccia e gambe, e si levò in
piedi.
«Sì,
se non ti dispiace» disse.
La
veranda guardava a est, al mare, e il sole, a un quarto del suo
tragitto, intiepidiva l'aria dell'inverno, nonostante il velo di
caligine. Tettoia e impiantito erano essenziali, fatti di legname
riciclato, ma le superfici erano decorate con un armonioso florilegio
di stencil che evocavano una bizzarra ma piacevole atmosfera russa.
Domenico era lì, in fondo, adagiato su una sedia a sdraio resa
invisibile dal viluppo di coperte che ricoprivano il corpo del
malato.
Quando
il dottor Cilli riuscì a posare lo sguardo su Domenico, fece fatica
riconoscerlo.
In
altezza, era rimasto il titano frutto dei retrovirus del dottor
Lorca, tanto che i piedi sporgevano in fuori fin quasi agli stinchi.
Ma il gonfiore delle coperte non era in grado di mascherare lo
sfacelo sottostante. Le membra possenti, scimmiesche, erano svanite,
lasciandosi dietro un insieme sminuito di ossa e tendini.
Ma
era stato il volto a creare il maggiore sconcerto nel Dottore. Nella
sua vita aveva visto un gran numero di malati terminali, e conosceva
molto bene l'indecenza con cui la morte in arrivo può sfigurare gli
esseri umani. Ma quella faccia non era la faccia del suo compagno. La
pelle, grigiastra e raggrinzita, si stirava sulle ossa del cranio
formando lunghe pieghe che sembravano lì lì per lacerarsi, e sugli
zigomi e sul naso, ridotto a una floscia appendice necrotica, aveva
assunto una colorazione violacea prossima al nero. Pieghe di pelle,
come colature di cera, coprivano parzialmente gli occhi infossati.
Essi
rimasero chiusi, malgrado il passo del Dottore avesse prodotto,
nell'avvicinarsi alla sdraio, parecchi scricchiolii.
Forse
è già morto, pensò il Dottore. Ma non riusciva a decidere se,
nel caso, sarebbe stato meglio così. Quando gli occhi si aprirono e
guardarono verso di lui, però, capì che no, non sarebbe stato
meglio.
L'espressione
del dottor Cilli, modulata su un lieve sorriso, non fece trapelare
nemmeno il più piccolo segno di scoramento.
«Ti
vedo veramente di merda» disse.
«Anche
tu hai un aspetto del cazzo» replicò Domenico. Le parole erano un
po' biascicate, ma erano rapide e precise. Dentro la carcassa lo
spirito era ancora vivace.
Accanto
alla sdraio c'era una sedia da giardino vecchia di almeno trent'anni,
con la plastica biancastra che denudava in molti punti il ferro
arrugginito. Il Dottore vi si sedette, e prese la mano destra di
Domenico tra le sue. Sembrava di afferrare un grosso, vuoto guanto di
pelle.
La
mente dell'ex titano non era completamente lucida (Ipazia non negava
gli antidolorifici ai moribondi come faceva Madre Teresa di
Calcutta), perché disse: «Grazie per avermi salvato, di nuovo».
Ma
il Dottore conosceva bene il senso di quell'affermazione, che l'amico
aveva fatto molte volte. Secondo Domenico, lo psichiatra lo aveva
tirato fuori dall'abisso una prima volta quando, alla fine degli anni
80, le orribili esperienze militari lo avevano trascinato verso la
psicosi. Su questo, il dottor Cilli era d'accordo, per quanto
attribuisse il ritorno di Domenico a un equilibrio mentale
passabilmente stabile un fatto, almeno per metà, di pura fortuna.
Quanto all'altro salvataggio... Gli veniva da ridere a sentire
l'amico descrivere il ventennio di vero calvario in cui l'aveva
trascinato, con tutta la violenza, i lutti e l'odio che entrambi
avevano dovuto condividere, descrivere quella lunga guerra come una
seconda salvezza...
«E
scusa per il cattivo odore...»
Stavolta
il Dottore rise davvero, ma poi capì.
Domenico
non aveva mai mostrato il minimo disagio per il puzzo delle camerate,
per il fetore che avvolge i soldati in lunga attesa, per il
soffocante sentore di un tunnel affollato (come quelli dell'Isola dei
Ratti, dimora di entrambi per anni interi): poteva nascondersi in un
montarozzo di rifiuti o imbrattarsi di letame per sviare una muta di
segugi, e non fare una piega.
Ma
l'odore della malattia lo mandava quasi nel panico. Quando, per
qualche seduta, avevano dovuto utilizzare un locale disponibile in
una casa di riposo privata, Domenico era stato sulle spine tutto il
tempo. L'aria del luogo, che mescolava il disinfettante al residuo
fecale, gli procurava una profonda angoscia, aveva confessato poi.
Niente di strano, aveva osservato lo psichiatra: è la paura della
morte, non quella violenta e istantanea di una pallottola, ma quella
si avvicina e avanza, come acqua che sale. E si era portato Domenico
sulle scale di emergenza, a fumare una sigaretta.
Quello
che l'orco abruzzese non aveva avuto mai la forza di sopportare,
invece, era l'odore di certi pazienti del Dottore, le volte che gli
era capitato di incontrarli. Da un certo punto di vista, lo
psichiatra lo capiva benissimo. Anche per lui era faticoso trattare
coi soggetti gravemente psicotici, capaci di non lavarsi per mesi,
anzi, per anni. A volte aveva la netta impressione che quel puzzo,
simile a un miasma oleoso, gli aderisse sulla pelle e gli entrasse
dentro. Anche per lui c'erano stati momenti di umore atrabiliare,
durante i quali non c'era acqua bollente e sapone disinfettante
sufficienti a eliminare le tracce di quel fetore.
Perché,
come aveva detto una volta Domenico, non era odore di sudiciume,
odore di sterco, odore di carogna: era l'odore della follia.
Ma
al momento, era chiaro, l'amico si riferiva al leggero effluvio del
pannolone, in realtà trascurabile. Anche perché, allineati sotto il
bordo dell'impiantito di legno, dove la veranda lasciava spazio al
terreno dolcemente declinante, mantenuto compatto da un'erbetta ben
tenuta, erano allineati alcuni vasi scompagnati, rigogliosi di menta
piperita, lavanda, timo e aglio del Galles. In quell'aria fresca, il
leggero odore di feci emanato da Domenico non era più un'offesa, un
triste segno di condanna per ogni creatura vivente, ma quasi un aroma
tra gli altri, come lo stallatico in campagna, non uno scandalo, ma
una innocua, indifferente normalità.
E
meno male che ti sto sottovento, che dopo una settimana di viaggio
sai che rose e fiori!
Alla
base del declivio, una cinquantina di metri più in basso, galline
razzolavano e bambini si rincorrevano. Il Dottore sorrise tra sé,
ripensando al tempo in cui quel posto sembrava un collegio femminile
sui generis: il collegio era cresciuto, aveva prosperato,
germogliato, fruttato, era diventato una comunità.
«Li
senti?»
Domenico
sembrava aver riacquistato un po' di forza.
«Loro,
dici?» Chiese il Dottore, alludendo a infanzia e pollame.
Domenico
si risistemò sul suo giaciglio: una grossa gruccia con appeso un
enorme cappotto floscio.
«Sì»
disse «È un desiderio che si avvera. Morire ascoltando i bambini
che giocano...»
In
effetti questo era un argomento di cui i due amici, nel corso degli
anni, avevano parlato periodicamente. Il Dottore chiuse gli occhi. La
convessità del terreno disperdeva e mescolava i suoni, e si sarebbe
detto che davanti a loro, a una distanza indeterminata, strepitasse
una schiera di piccoli uccelli.
«Ricordi
quanto ci faceva incazzare il pensiero della morte?» Riprese l'orco.
«Me
ne ricordo, eccome. Perché, ti sei convertito? Hai visto la luce?
Hai visto Padre Pio?»
«No,
p***o Dio» ridacchiò Domenico «Anzi. Resta tutto come prima,
l'angoscia, il terrore del nulla che mi aspetta, l'impossibilità di
concepirlo...»
«E
allora?»
«E
allora... Sono così stanco. Potrei provare quelle emozioni, la
paura, l'orrore... Ma non ce la faccio più. So che me ne sto
andando, ma non ho più la forza di spaventarmi. Sono talmente
esausto che nient'altro conta».
«Buon
per te» disse il Dottore, stringendo di più la mano dell'amico.
«E
ti ringrazio, perché così posso addormentarmi in pace, con un amico
al fianco, in una casa che mi ha dato rifugio, e i bambini, e la
luce, e questo buon profumo...»
Il
Dottore restò in silenzio, ad ascoltare il sottile raspìo emesso da
Domenico. Il fiato entrava e usciva, entrava e usciva, entrava e
usciva, sempre più lieve. Poi, alla fine, a malapena udibile, venne
emesso l'ultimo filo d'aria.
Il
Dottore, immobile, si accorse di versare lacrime, senza volerlo,
senza deciderlo. Come una pietra.
Si
disse che aveva fatto benissimo a non dire a Domenico che anche lui
aveva i giorni, anzi, le ore contate. La disfunzione multiorgano
derivata dagli attacchi chimici scatenati dalla Coalizione contro
l'Isola dei Ratti, incombente negli ultimi anni, si era finalmente
manifestata.
Anche
lui era venuto da Ipazia per avere una casa in cui finire il suo
tempo. Aveva perso tutte le persone che amava, e lo stesso desiderio
di giustizia, per lui indistinguibile dalla vita stessa, lo aveva
abbandonato. No, era meglio dire che era volato via, pertinenza di
altri, altre persone e altri luoghi. In quell'istante, lì, accanto
al suo amico morto, quello era tutto il suo universo.
Ripensò
di nuovo alle chiacchierate sulla paura della morte. Il suo personale
rimpianto era sempre stato quello di non esserci per vedere come
sarebbero andate le cose, non sapere cosa sarebbe successo di lì a
cinquant'anni, di lì a un secolo, un millennio.
Ma
chissà, pensò porgendo orecchio alla lieta gazzarra di bambini
e galline, forse questo è tutto il futuro che c'è, quello che
conta, quello che vale la pena di conoscere...
E,
ignorando il dolore che gli trafiggeva le membra, si abbandonò sulla
sedia, appoggiando la nuca contro il legno tiepido, e chiuse gli
occhi.
Le
mani dei due amici erano ancora unite.
Villa
Carmine, dicembre 2017
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