domenica 27 ottobre 2019

Due poesie di Nika Turbina



[Ho creduto allo sguardo]

a V. I. Nikolaeva

Ho creduto allo sguardo,
inutili le parole.
Di colpo ho creduto
a lacrime più amare
del dolore cupo, dolci
più di un sonno di bimbo.
Una stella azzurra
a metà del cielo.
Non tenete in pugno la farfalla
che la fiamma tenta.
Sarà eterna
la sua vita
all'alba.

[1983]


Pesciolino d'oro [1]

Hanno ingannato il pesciolino d'oro:
tutti i suoi regali resi.
Persino le parole
da lui dette sull'amore
abbiamo dato indietro:
un amaro inizio...
Poi perché di nuovo
dall'orlo di un dirupo
supplicanti con lo sguardo
ci aspettiamo una parola?

[Italia — Yalta 1985]

(da Nika Turbina - Sono Pesi Queste Mie Poesie - Edizioni Via del Vento 2008 - Traduzione di Federico Federici)



Non ricordo l'anno.
Quella sera, un famoso poeta sovietico (Evgenij Evtušenko) avrebbe presentato al pubblico locale Nika Turbina, enfant prodige, poetessa bambina...

Ecco, doveva essere il 1985. Le avevano assegnato il Leone d'oro per la poesia. Nata a Jalta nel 1974. Quindi al tempo della sua sosta in Val Vibrata aveva undici anni.
Io non avevo ancora trent'anni.
Villa Corallo, Garrufo di Sant'Omero.
C'era anche, o ci sarebbe stato, un ristorante. Anni dopo, io e Nando ci avremmo mangiato delle ottime caramelle al tartufo.
Sia maledetto l'oblio, e i ricordi artefatti che si tira dietro.
Credo di vederla, in jeans e maglione, il volto sollevato. Le braccia non gesticolano, ma tracciano una profezia.
Le parole russe risuonano come un'invocazione, o un reclamo. La traduzione italiana, letta da Evtušenko, non chiarisce, anzi amplifica la sensazione di assistere a un evento quasi misterico.
Sento di trovarmi a contatto con la pura esistenza, con la vita nella sua distillata brutalità. Sento di trovarmi di fronte all'irrimediabile.
Ma seppellisco la visione dentro di me.
E dimentico quanto quelle parole abbiano determinato, molto più dei corsi di recitazione e dei modelli ronconiani, la forma di questo miserabile saltinbanco scavalcamontagne.
Che vigliaccheria, che oltraggiosa codardia.
Solo ora, da vecchio, scopro che lei è morta. Nel 2002.
Lei non aveva ancora trent'anni.
E questo spregevole vecchio si è portato nel centro dell'anima quella inestimabile lezione, come fosse un ricordo qualsiasi, non riconoscendone la natura di debito inesigibile.
E ora è troppo tardi per dire grazie o chiedere scusa.


[1] La fiaba russa, rinarrata sia da Afanas'ev sia da Puškin (ma esiste anche una versione dei Grimm), racconta di un povero pescatore che pesca un magico pesciolino d'oro, che in cambio della libertà promette di esaudire ogni suo desiderio. Il pescatore è un modello di sobrietà e continenza, non così la moglie, ambiziosa e violenta, che pretende prodigi sempre più grandi (prima un po' di pane, poi una tinozza nuova, poi una casa, poi un palazzo, poi il potere statale, poi quello imperiale, poi...). Il pesciolino concede tutto, ma quando la donna vuole diventare signora dei mari e di tutte le creature che lo abitano (quindi anche del pesciolino), il limite è superato, i miracoli si azzerano, e lei e il marito si ritrovano poveri in canna come all'inizio.
Più che l'ambizione sfrenata, qui vediamo punito il tentativo degli esseri umani di oltrepassare il confine tra umano e divino (nella versione dei Grimm la moglie del pescatore vuole letteralmente diventare Dio!), cosa che scardinerebbe l'ordine cosmico.
A cosa alludano i versi, accennando alle “parole da lui dette sull'amore”, non so.



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