[Ho
creduto allo sguardo]
a
V. I. Nikolaeva
Ho
creduto allo sguardo,
inutili
le parole.
Di
colpo ho creduto
a
lacrime più amare
del
dolore cupo, dolci
più
di un sonno di bimbo.
Una
stella azzurra
a
metà del cielo.
Non
tenete in pugno la farfalla
che
la fiamma tenta.
Sarà
eterna
la
sua vita
all'alba.
[1983]
Pesciolino
d'oro [1]
Hanno
ingannato il pesciolino d'oro:
tutti
i suoi regali resi.
Persino
le parole
da
lui dette sull'amore
abbiamo
dato indietro:
un
amaro inizio...
Poi
perché di nuovo
dall'orlo
di un dirupo
supplicanti
con lo sguardo
ci
aspettiamo una parola?
[Italia
— Yalta 1985]
(da
Nika Turbina - Sono Pesi Queste Mie Poesie - Edizioni Via del
Vento 2008 - Traduzione di Federico Federici)
Non
ricordo l'anno.
Quella
sera, un famoso poeta sovietico (Evgenij
Evtušenko) avrebbe presentato al pubblico locale Nika Turbina,
enfant prodige,
poetessa bambina...
Ecco, doveva essere il 1985. Le
avevano assegnato il Leone
d'oro per la poesia. Nata a Jalta nel 1974. Quindi al tempo della
sua sosta in Val Vibrata aveva undici anni.
Io non avevo ancora trent'anni.
Villa Corallo, Garrufo di
Sant'Omero.
C'era
anche, o ci sarebbe stato, un ristorante. Anni dopo, io e Nando ci
avremmo mangiato delle ottime caramelle al tartufo.
Sia
maledetto l'oblio, e i ricordi artefatti che si tira dietro.
Credo
di vederla, in jeans e maglione, il volto sollevato. Le braccia non
gesticolano, ma tracciano una profezia.
Le
parole russe risuonano come un'invocazione, o un reclamo. La
traduzione italiana, letta da Evtušenko, non chiarisce, anzi
amplifica la sensazione di assistere a un evento quasi misterico.
Sento
di trovarmi a contatto con la pura esistenza, con la vita nella sua
distillata brutalità. Sento di trovarmi di fronte all'irrimediabile.
Ma
seppellisco la visione dentro di me.
E
dimentico quanto quelle parole abbiano determinato, molto più
dei corsi di recitazione e dei modelli ronconiani, la forma di
questo miserabile saltinbanco scavalcamontagne.
Che
vigliaccheria, che oltraggiosa codardia.
Solo
ora, da vecchio, scopro che lei è morta. Nel 2002.
Lei
non aveva ancora trent'anni.
E
questo spregevole vecchio si è portato nel centro dell'anima quella
inestimabile lezione, come fosse un ricordo qualsiasi, non
riconoscendone la natura di debito inesigibile.
E
ora è troppo tardi per dire grazie o chiedere scusa.
[1]
La fiaba russa, rinarrata sia da Afanas'ev sia da Puškin (ma esiste
anche una versione dei Grimm), racconta di un povero pescatore che
pesca un magico pesciolino d'oro, che in cambio della libertà
promette di esaudire ogni suo desiderio. Il pescatore è un modello
di sobrietà e continenza, non così la moglie, ambiziosa e violenta,
che pretende prodigi sempre più grandi (prima un po' di pane, poi
una tinozza nuova, poi una casa, poi un palazzo, poi il potere
statale, poi quello imperiale, poi...). Il pesciolino concede tutto,
ma quando la donna vuole diventare signora dei mari e di tutte le
creature che lo abitano (quindi anche del pesciolino), il limite è
superato, i miracoli si azzerano, e lei e il marito si ritrovano
poveri in canna come all'inizio.
Più
che l'ambizione sfrenata, qui vediamo punito il tentativo degli
esseri umani di oltrepassare il confine tra umano e divino (nella
versione dei Grimm la moglie del pescatore vuole letteralmente
diventare Dio!), cosa che scardinerebbe l'ordine cosmico.
A
cosa alludano i versi, accennando alle “parole da lui dette
sull'amore”, non so.
Nessun commento:
Posta un commento