venerdì 8 novembre 2019

Denti Alligator, Joyce e il Libro Mondo


di Domenico D'Amico



Fare esperienza del mondo nella maniera in cui se ne può essere debitori a un libro o a una lettera, non presuppone soltanto l'alfabetismo, o il fatto che scritto e libro abbiano già impresso la loro forma sui desideri di accesso al senso; ma presuppone l'idea culturale del libro stesso, per quell'aspetto per cui esso non è più mero strumento per accedere ad altro. Una volta però che l'esperienza del libro si sia resa autonoma in una propria esperienza di totalità - come esemplarmente nell'epos greco arcaico o nel Libro dei libri -, essa comincia a competere con l'esperienza del mondo.
(Hans Blumenberg - La Leggibilità del Mondo, pag.5)

Come se non fossero bastati i danni provocati dall'invenzione della scrittura (descritti da Platone nel Fedro), in seguito assimilabili a quelli derivati dalla cultura in generale (Rousseau) o dall'insegnamento della Storia che trasforma i giovani in smidollati (Nietzsche), appena il letale alfabeto fonetico (tomba del proliferante simbolismo romantico del geroglifico) trova la sua arma finale nel diabolico torchio di Gutenberg, il Libro si lancia alla conquista, no, alla sostituzione del Mondo. Se il Libro dei Libri è una manifestazione diretta della volontà di Dio, è facile considerare il Mondo un'imitazione della Parola, ma anche se ci si libera di Dio, quanto ci vuole per passare dal (solo) studio di Galeno agli esperimenti in corpore vili?
Spogliato ignominiosamente delle sue ambizioni cabalistiche (pretendeva non di rappresentare il cosmo, ma di essere il cosmo!) il libro si è risarcito diventando l'incarnazione dell'identità delle società umane, con tanto di enciclopedie al seguito.
Poi è arrivata la catastrofe: la modernità.
Il molteplice, il caos, il casuale, l'arbitrario, il molteplice, il frammentario hanno crivellato, spolpato, intossicato, svuotato, inaridito e fiaccato il Libro.
E il Libro, in un inconsulto, peristaltico moto di vitalità, ha guardato con lacrimevole nostalgia all'epica antica, e ha sparato la sua ultima salva: il Libro-Mondo moderno.
Il massimo esempio di Libro-Mondo moderno è l'Ulisse di James Joyce.

Non è più il tempo i cui i cieli e la terra si univano in un immenso imeneo, il sole impallidisce e la luna diventa livida a fianco dell’illuminazione a gas, – ogni giorno un astro che svanisce, ieri era Dio, oggi l’amore, domani l’arte. In cento anni, forse in un anno, sarà necessario che tutto ciò che è grande, che tutto ciò che è bello, che tutto ciò che è poeta infine, si tagli la gola per inoperosità o vada a farsi rinnegato in Turchia.
Lettera a Ernest Chevalier del 21 settembre 1841 (da Gustave Flaubert - L'Opera e il Suo Doppio. Dalle Lettere - Fazi Editore)

Partiamo da un dettaglio apparentemente secondario: perché Joyce sceglie il nome latino Ulisse invece del greco Odisseo, quest'ultimo, a un orecchio anglosassone, più “naturale” del primo? Questa scelta, a nostro modestissimo parere, prefigura il piano messo in atto nella realizzazione dell'Ulysses.
Il progetto joyciano incarna quella che potremmo definire “cosmica paraculaggine”. Si parte dalla triade romantica dei grandi geni dell'occidente, cioè Omero, Dante e Shakespeare.
Per Shakespeare non c'è problema, lo conosco a menadito, non posso scrivere tre frasi senza che mi sfugga una citazione da Amleto o Macbeth.
Per Dante, però, ho un'autentica venerazione: il Bardo, ai miei occhi, è un grandissimo poeta, ma non basta la poesia (grande o non grande) per generare la cosmica monumentalità della Commedia.
E allora?


La chiave me la dà il terzo elemento della costellazione geniale. Omero mi dà Odisseo, Odisseo mi dà l'Ulisse di Virgilio, l'Ulisse di Virgilio mi porta a Dante. L'Odisseo di Omero viaggia nell'altro mondo (anche se solo nell'Ade), così come fa Dante, che all'Inferno incontra Ulisse, e l'Ulisse di Dante esemplifica (anche) l'impresa (quasi) impossibile di scrivere un'opera-mondo a cui “ha posto mano e cielo e terra”. Tenuto conto che, seppure marginalmente (Troilo e Cressida), anche Shakespeare ha parlato di Ulisse, ecco che ho trovato la formula per il mio libro-mondo, innervato nella triade occidentale (Omero, Dante, Shakespeare). Quanto alla sua forma materiale, il modello non può non essere che la Commedia. Che Joyce paragoni il suo romanzo a una chiesa gotica o a un'enciclopedia, non è affatto casuale. Il modello narrativo dell'Ulisse, infatti, non è l'Odissea. In Joyce intreccio e fabula coincidono, e se l'unità di luogo (Dublino) si può discutere, la “ferrea unità di tempo” (pag.XX dell'introduzione di Italo Svevo all'edizione Feltrinelli di Gente di Dublino) è indubitabile. Al confronto con la dinamicità strutturale dell'Odissea (inizio in media res, ruolo rilevante del racconto nel racconto, vicende diverse seguite alternativamente), la messa in scena di Joyce appare primitiva. Ma oltre al fattore architettonico, è l'aspetto contenutistico a evidenziare l'aspirazione di Joyce verso il modello dantesco.
Quindi vai con l'accumulazione di digressioni letterarie, scientifiche, etiche, filosofiche eccetera, ricorrenti manifestazioni astronomiche, ma anche (e forse soprattutto) un tono volutamente esoterico e labirintico, con la differenza che Dante desidera (anzi, esige) che il lettore interpreti i suoi enigmi, mentre Joyce li moltiplica per assicurare l'immortalità (se non letteraria, almeno ermeneutica) al suo romanzo.
E per evitare il rischio che il suo progetto diventi un “folle volo” destinato al fallimento (come il viaggio di Ulisse, che in Dante prefigura anche l'incombente hybris dell'aspirazione alla sacra scrittura), Joyce decide di bordeggiare nel microcosmo, lanciando alle sfere superne un'occhiata distratta.
Anche questo è inevitabile.
Dante può saltare nel vuoto perché ha fede. Joyce non ha fede, e sa che se salta nel vuoto non entrerà nell'oltremondo, ma scomparirà nel nulla. Dante critica ferocemente l'istituzione ecclesiastica, ma è ferreo nel ritenerla divinamente legittimata. Joyce, di nuovo, non possiede quel tipo di fede (Mary Trackett Reynolds - Joyce and Dante, the Shaping Imagination, pag.18), e questo rende superficiali le sue battute iconoclastiche. È naturale: per Dante, la sua opera è strumento di redenzione e rifondazione dell'identità cristiana; Joyce non ha nulla da rifondare, nemmeno un'ipotetica anima irlandese.
Questo è uno dei motivi per cui rimane ossessivamente attaccato alla concretezza fisiologica e carnale dell'umana quotidianità, in cui l'unica sopravvivenza post mortem è quella della decomposizione (Ulisse, cap.IV).
Ma l'aspirazione alla sacra scrittura, magari in una sua versione “mortificata”, resta. Come rileva Terrinoni:

La lettura di Eliot ruotava dunque intorno al parallelismo mitologico di Ulisse. In seguito, Richard Ellmann, uno dei critici più rilevanti dell’opera di Joyce, vede proprio nella centralità del mito quattro aspetti principali:
Il primo è letterale: ovvero, la narrazione dell’allontanamento di Stephen da Mulligan, l’infedeltà di Molly Bloom, l’incontro di Bloom e Stephen, il loro ritorno alla casa di Bloom e la partenza finale. Il filo è sottile ma sufficiente per una nuova odissea in cui tutte le avventure hanno luogo nella mente. Il secondo aspetto è etico, ha a che fare con certe differenziazioni tra vita desiderabile e indesiderabile. Il terzo è estetico, e presenta una relazione tra arte e natura, come tra arte e moralità. Il quarto è anagogico, la giustificazione finale dell’esistenza. Il libro si conclude con l’assorbimento dei primi tre livelli nel quarto. Per fondere questo alto scopo con le circostanze più ordinarie, Joyce adopera le stravaganze della commedia.
Non sfuggirà qui l’allusione implicita ai vari livelli di lettura della Divina Commedia di Dante – uno tra i modelli più importanti di Ulisse.

Ci si riferisce al genere di interpretazione scritturale, già tradizionale nel Medio Evo, riepilogata da Dante nella sua XIII epistola.
Ma i sovrasensi citati qui sopra restano sterili. Quando Dante dice che il suo viaggio lo riporterà a casa ( “reducemi a ca'”, Inferno XV, 54), capiamo subito che si tratta di una meta salvifica, paradossalmente un ritorno senza ritorno. Difatti, l'everyman Dante non può recuperare lo stato edenico (che implicherebbe una traiettoria circolare), ma ricongiungersi col divino mediante l'inedita maturità spirituale resa possibile dall'Incarnazione. È un viaggio verso l'alto, e il suo vettore è unidirezionale.
Bloom, invece, torna sì a casa al termine del romanzo, ma la meta è identica al luogo di partenza, il vettore del viaggio è futilmente circolare. Nulla è cambiato, nulla è conquistato. Per l'eroe di Joyce non c'è nessun “ottimo cammino” verso la salvezza eterna, nessuna strage di proci e impiccagione di ancelle infedeli.
Bloom è uscito di casa, è tornato a casa, ma non è andato e non è arrivato da nessuna parte.

Vedi anche Carmelo BeneCammarota, e ancora ancora e ancora.


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