di
Domenico D'Amico
Fare
esperienza del mondo nella maniera in cui se ne può essere debitori
a un libro o a una lettera, non presuppone soltanto l'alfabetismo, o
il fatto che scritto e libro abbiano già impresso la loro forma sui
desideri di accesso al senso; ma presuppone l'idea culturale del
libro stesso, per quell'aspetto per cui esso non è più mero
strumento per accedere ad altro. Una volta però che l'esperienza del
libro si sia resa autonoma in una propria esperienza di totalità -
come esemplarmente nell'epos greco arcaico o nel Libro dei libri -,
essa comincia a competere con l'esperienza del mondo.
(Hans
Blumenberg - La Leggibilità del
Mondo, pag.5)
Come
se non fossero bastati i danni provocati dall'invenzione della
scrittura (descritti da Platone nel Fedro), in seguito assimilabili a
quelli derivati dalla cultura in generale (Rousseau) o
dall'insegnamento della Storia che trasforma i giovani in smidollati
(Nietzsche), appena il letale alfabeto fonetico (tomba del
proliferante simbolismo romantico del geroglifico) trova la sua arma
finale nel diabolico torchio di Gutenberg, il Libro si lancia alla
conquista, no, alla sostituzione del Mondo. Se il Libro dei
Libri è una manifestazione diretta della volontà di Dio, è facile
considerare il Mondo un'imitazione della Parola, ma anche se ci si
libera di Dio, quanto ci vuole per passare dal (solo) studio di
Galeno agli esperimenti in corpore vili?
Spogliato
ignominiosamente delle sue ambizioni cabalistiche (pretendeva non di
rappresentare il cosmo, ma di essere il cosmo!) il libro si è
risarcito diventando l'incarnazione dell'identità delle società
umane, con tanto di enciclopedie al seguito.
Poi
è arrivata la catastrofe: la modernità.
Il
molteplice, il caos, il casuale, l'arbitrario, il molteplice, il
frammentario hanno crivellato, spolpato, intossicato, svuotato,
inaridito e fiaccato il Libro.
E
il Libro, in un inconsulto, peristaltico moto di vitalità, ha
guardato con lacrimevole nostalgia all'epica antica, e ha sparato la
sua ultima salva: il Libro-Mondo moderno.
Il
massimo esempio di Libro-Mondo moderno è l'Ulisse di James
Joyce.
Non
è più il tempo i cui i cieli e la terra si univano in un immenso
imeneo, il sole impallidisce e la luna diventa livida a fianco
dell’illuminazione a gas, – ogni giorno un astro che svanisce,
ieri era Dio, oggi l’amore, domani l’arte. In cento anni, forse
in un anno, sarà necessario che tutto ciò che è grande, che tutto
ciò che è bello, che tutto ciò che è poeta infine, si tagli la
gola per inoperosità o vada a farsi rinnegato in Turchia.
Lettera
a Ernest Chevalier del 21 settembre 1841 (da Gustave Flaubert -
L'Opera
e il Suo Doppio. Dalle Lettere -
Fazi Editore)
Partiamo
da un dettaglio apparentemente secondario: perché Joyce sceglie il
nome latino Ulisse invece del greco Odisseo, quest'ultimo, a un
orecchio anglosassone, più “naturale” del primo? Questa scelta,
a nostro modestissimo parere, prefigura il piano messo in atto nella
realizzazione dell'Ulysses.
Il
progetto joyciano incarna quella che potremmo definire “cosmica
paraculaggine”. Si parte dalla triade romantica dei grandi geni
dell'occidente, cioè Omero, Dante e Shakespeare.
Per
Shakespeare non c'è problema, lo conosco a menadito, non posso
scrivere tre frasi senza che mi sfugga una citazione da Amleto
o Macbeth.
Per
Dante, però, ho un'autentica venerazione: il Bardo, ai miei occhi, è
un grandissimo poeta, ma non basta la poesia (grande o non grande)
per generare la cosmica monumentalità della Commedia.
E
allora?
La chiave me la dà il terzo elemento della costellazione
geniale. Omero mi dà Odisseo, Odisseo mi dà l'Ulisse di
Virgilio, l'Ulisse di Virgilio mi porta a Dante. L'Odisseo di Omero
viaggia nell'altro mondo (anche se solo nell'Ade), così come fa
Dante, che all'Inferno incontra Ulisse, e l'Ulisse di Dante
esemplifica (anche) l'impresa (quasi) impossibile di scrivere
un'opera-mondo a cui “ha posto mano e cielo e terra”. Tenuto
conto che, seppure marginalmente (Troilo e Cressida), anche
Shakespeare ha parlato di Ulisse, ecco che ho trovato la formula per
il mio libro-mondo, innervato nella triade occidentale (Omero, Dante,
Shakespeare). Quanto alla sua forma materiale, il modello non può
non essere che la Commedia. Che Joyce paragoni il suo romanzo
a una chiesa gotica o a un'enciclopedia, non è affatto casuale. Il
modello narrativo dell'Ulisse, infatti, non è l'Odissea. In Joyce
intreccio e fabula coincidono, e se l'unità di luogo (Dublino) si
può discutere, la “ferrea unità di tempo” (pag.XX
dell'introduzione di Italo Svevo all'edizione Feltrinelli di Gente
di Dublino) è indubitabile. Al confronto con la dinamicità
strutturale dell'Odissea (inizio in media res, ruolo
rilevante del racconto nel racconto, vicende diverse seguite
alternativamente), la messa in scena di Joyce appare primitiva.
Ma oltre al fattore architettonico, è l'aspetto contenutistico a
evidenziare l'aspirazione di Joyce verso il modello dantesco.
Quindi
vai con l'accumulazione di digressioni letterarie, scientifiche,
etiche, filosofiche eccetera, ricorrenti manifestazioni astronomiche,
ma anche (e forse soprattutto) un tono volutamente esoterico e
labirintico, con la differenza che Dante desidera (anzi, esige) che
il lettore interpreti i suoi enigmi, mentre Joyce li moltiplica per
assicurare l'immortalità (se non letteraria, almeno ermeneutica) al
suo romanzo.
E
per evitare il rischio che il suo progetto diventi un “folle volo”
destinato al fallimento (come il viaggio di Ulisse, che in Dante
prefigura anche l'incombente hybris dell'aspirazione alla sacra
scrittura), Joyce decide di bordeggiare nel microcosmo, lanciando
alle sfere superne un'occhiata distratta.
Anche
questo è inevitabile.
Dante
può saltare nel vuoto perché ha fede. Joyce non ha fede, e sa che
se salta nel vuoto non entrerà nell'oltremondo, ma scomparirà nel
nulla. Dante critica ferocemente l'istituzione ecclesiastica, ma è
ferreo nel ritenerla divinamente legittimata. Joyce, di nuovo, non
possiede quel tipo di fede
(Mary
Trackett Reynolds - Joyce
and Dante, the Shaping Imagination,
pag.18), e questo rende superficiali le sue battute iconoclastiche. È
naturale: per Dante, la sua opera è strumento di redenzione e
rifondazione dell'identità cristiana; Joyce non ha nulla da
rifondare, nemmeno un'ipotetica anima irlandese.
Questo
è uno dei motivi per cui rimane ossessivamente attaccato alla
concretezza fisiologica e carnale dell'umana quotidianità, in cui
l'unica sopravvivenza post mortem è quella della
decomposizione (Ulisse, cap.IV).
Ma
l'aspirazione alla sacra scrittura, magari in una sua versione
“mortificata”, resta. Come rileva Terrinoni:
La
lettura di Eliot ruotava dunque intorno al parallelismo mitologico di
Ulisse. In seguito, Richard Ellmann, uno dei critici più
rilevanti dell’opera di Joyce, vede proprio nella centralità del
mito quattro aspetti principali:
Il
primo è letterale: ovvero, la narrazione dell’allontanamento di
Stephen da Mulligan, l’infedeltà di Molly Bloom, l’incontro di
Bloom e Stephen, il loro ritorno alla casa di Bloom e la partenza
finale. Il filo è sottile ma sufficiente per una nuova odissea in
cui tutte le avventure hanno luogo nella mente. Il secondo aspetto è
etico, ha a che fare con certe differenziazioni tra vita desiderabile
e indesiderabile. Il terzo è estetico, e presenta una relazione tra
arte e natura, come tra arte e moralità. Il quarto è anagogico, la
giustificazione finale dell’esistenza. Il libro si conclude con
l’assorbimento dei primi tre livelli nel quarto. Per fondere questo
alto scopo con le circostanze più ordinarie, Joyce adopera le
stravaganze della commedia.
Non
sfuggirà qui l’allusione implicita ai vari livelli di lettura
della Divina Commedia di Dante – uno tra i modelli più
importanti di Ulisse.
Ci
si riferisce al genere di interpretazione scritturale, già
tradizionale nel Medio Evo, riepilogata da Dante nella sua XIII
epistola.
Ma
i sovrasensi citati qui sopra restano sterili. Quando Dante dice che
il suo viaggio lo riporterà a casa ( “reducemi a ca'”,
Inferno XV, 54), capiamo subito che si tratta di una meta salvifica,
paradossalmente un ritorno senza ritorno. Difatti, l'everyman
Dante non può recuperare lo stato edenico (che implicherebbe una
traiettoria circolare), ma ricongiungersi col divino mediante
l'inedita maturità spirituale resa possibile dall'Incarnazione. È
un viaggio verso l'alto, e il suo vettore è unidirezionale.
Bloom,
invece, torna sì a casa al termine del romanzo, ma la meta è
identica al luogo di partenza, il vettore del viaggio è futilmente
circolare. Nulla è cambiato, nulla è conquistato. Per l'eroe di
Joyce non c'è nessun “ottimo cammino” verso la salvezza eterna,
nessuna strage di proci e impiccagione di ancelle infedeli.
Bloom
è uscito di casa, è tornato a casa, ma non è andato e non è
arrivato da nessuna parte.
Vedi
anche Carmelo
Bene, Cammarota,
e ancora e ancora
e ancora.
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