mercoledì 26 febbraio 2020

Hugo, Dostoevskij, Nietzsche, Dante e la Cavallina Storna


di Domenico D'Amico

MET, Statuetta in bronzo, Grecia II-I Sec. A.C.


Era una giumenta della Beauce, vecchia, magra e degna del macellaio, che trascinava un carro pesantissimo. Arrivata davanti a Bombarda, la bestia, esausta e sfinita, si era rifiutata di andare oltre. Quell’incidente aveva richiamato una folla. Il carrettiere, imprecante e indignato, aveva appena avuto il tempo di pronunciare con l’energia conveniente la parola sacramentale: Bastardo! sottolineata da un’implacabile frustata, che il ronzino era caduto per non più rialzarsi.
(Victor Hugo, I Miserabili)

Avviso ai naviganti
Quando, man mano che ci inoltriamo nei Miserabili di Victor Hugo, mi sono trovato davanti questa scena, non ho potuto non pensare a Dostoevskij. Un quadro simile lo scrittore russo lo evoca due volte. La prima in Delitto e Castigo, nel sogno (o meglio, incubo) che coglie il protagonista quando ancora non riesce a decidersi di uccidere l'usuraia: una povera cavallina viene sottoposta dal padrone (con l'incitamento degli astanti ubriachi) ad atroci sofferenze che la portano alla morte, mentre il protagonista (che si vede bambino) l'abbraccia piangendo.

"Finiamola! – grida Mikolka, e balza giù, come impazzito, dal carro. Alcuni ragazzi, anch’essi rossi e ubriachi, afferrano quel che capita: fruste, bastoni, la stanga, e corrono dalla cavalluccia agonizzante. Mikolka si ferma di fianco e comincia a picchiarla inutilmente sulla schiena con la spranga. La rozza protende il muso, manda un pesante sospiro e muore."

L'orribile quadro viene rievocato anche nei Fratelli Karamazov, ma in maniera più mediata. Ivan Karamazov lo descrive come derivato dalla lettura di una poesia di Nikolaj Nekrasov. Questa poesia sarebbe O pogode (1859) (cfr. Kenneth Lantz, The Dostoevsky Encyclopedia, Greenwood Press 2004, pag.275), ma forse sarebbe più esatto dire che si tratta della poesia Do sumerek che fa parte del poema narrativo O pogode (cfr. Daniela Stella (a cura di), Il Grande Inquisitore. Interpretazioni nel pensiero russo, Accademia University Press 2015, pag.168 n.4). Tuttavia, la pubblicazione di Delitto e Castigo (1866) è successiva a quella del poema di Nekrasov, e pure, se è per questo, alla pubblicazione dei Miserabili, che Dostoevskij avrebbe “divorato” quando, nel 1862, visitava Firenze in compagnia del poeta Nikolai Strakhov (cfr. Kenneth Lantz, Op. Cit., pag.191).
Dovremmo metterci a caccia di una presunta primazia?
No, credere in una meccanica concatenazione di ispirazioni sarebbe ingenuo:

Una gran mole di acume critico è stata spesa per rintracciare le origini letterarire del famoso sogno di Raskol'nikov. (...) Sono stati descritti numerosi schemi: da Hugo a Kekrasov e Dostoevskij, da Hugo e Nekrasov a Dostoevskij, da Hugo a Nekrasow e quindi a Dostoevskij. (...) Dostoevskij, se interrogato su queste diverse influenze, probabilmente avrebbe risposto: 'A quel tempo non ci pensavo proprio, ma probabilmente i ciritici hanno ragione.'
(Jacques Catteau, Dostoyevsky and the Process of Literary Creation, Cambridge University Press 1989, pag.45-46 – traduzione mia dalla versione inglese).

Sia quel che sia, in entrambi gli autori la figura del cavallo è un segnale.
Nel caso di Hugo, si tratta di una scheggia conficcata nella descrizione dei divertimenti di Fantine, delle sue amiche e i relativi innamorati. È come se Hugo lanciasse un ammonimento: attenti, tra poco su questi spassi precipiterà la tragedia.

Peter Paul Rubens, Achille istruito dal centauro Chirone (1635), Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen

Cavalcare il centauro
L'immagine del cavallo (che nella cultura indoeuropea abbraccia un campo simbolico mutevole e sterminato) qui riveste un ruolo specifico: è lo specchio rivelatore dell'innocenza vittima del male, e della capacità umana di partecipare del suo dolore.
Per l'uomo il cavallo è qualcosa di più di un compagno (come può esserlo il cane), anzi, nel caso del cavaliere, evoca la fusione umano-animale, sia storica (il guerriero mongolo) sia mitica (il centauro).

Nell'Inferno di Dante, il girone dei violenti, messi a bagno nel sangue bollente del Flegetonte, è pattugliato da plotoni di centauri, comandati dal reputatissimo Chirone, in vita sensei di grandi eroi come Achille.
Il gesto con cui Chirone introduce le sue osservazioni, è solenne e (quasi) rituale: utilizzando una freccia (simbolo del Sagittario, costellazione in cui il centauro è stato trasfigurato da Zeus) “fece la barba indietro alle mascelle” (Inf. XII, 78), cioè si dispone, scoperta la bocca, a parlare. Tale scriminatura richiama quella delle chiome candide di Catone, (Purg. I, 36) “de' quai cadeva al petto doppia lista”.
Potrebbe sembrare un accostamento stridente, se non inopportuno: dopotutto i centauri svolgono un ruolo di ispezione e sorveglianza in un girone infernale, insomma fanno i secondini, mentre il magnanimo uticense, ormai assunto alla beatitudine, funge da portiere, da “buttadentro” del Purgatorio. Ma occorre anche rilevare come, tra tutte le creature non umane incontrate da Dante nella sua tappa sotterranea, i centauri delineino un profilo assolutamente unico. I vari Pluto, Minosse, Cerbero, Gerione posseggono tratti estremamente negativi e degradati; lo stesso Minotauro, che Dante e Virgilio incontrano poco prima di imbattersi nei centauri (e che non è impossibile Dante si figurasse come una specie di centauro semibovino – accenno di Sermonti) mostra le caratteristiche che la cultura classica invece attribuiva ai centauri (con l'eccezione, ovviamente, di Chirone): è bestiale, frenetico, scatenato, mentre i centauri danteschi sono affidabili e disciplinati. Quando Dante sale in groppa a Nesso, in lui non c'è traccia di inquietudine (Virgilio, addirittura, delegherà al centauro la funzione di guida e accompagnatore), mentre quando inforcherà Gerione o sarà preso in mano dal gigante Anteo, verrà quasi sopraffatto dalla paura.
Può darsi che, come osserva Giorgio Inglese, questa differenziazione abbia una qualità essenzialmente stilistica. Tuttavia, sempre sulle orme di Sermonti, non possiamo evitare di accostare questo atteggiamento di fiducia, rispetto ed empatia, alla natura speciale del rapporto uomo-cavallo nel contesto della civiltà euro-asiatica cui accennavamo più sopra, empatia che può giungere alla parificazione del valore dell'esistenza tra le due specie (basti pensare all'esempio del Michael Kohlhaas di Kleist).

Assenza di ferite da difesa
Proprio per la sua prossimità con l'umano, la figura del cavallo ne può raffigurare in modo, per così dire, distillato la condizione. La cavallina di Raskol'nikov non prefigura tanto quella di Nekrasov citata da Ivan Karamazov, ma piuttosto i bambini come vittime assolute e definitive descritti, di nuovo, nel discorso di “ribellione” di Ivan. La cavallina, così come i bambini, non può frapporre alcun ostacolo, alcun diaframma culturale, tra sé e la violenza che subisce.

Nella teologia scolastica si distingue tra ira buona e ira cattiva, dato che l'indignazione che il giusto prova di fronte al peccato non può essere considerata negativamente (cfr. L’ira secondo Tommaso d’Aquino, in Rivista di Teologia di Lugano, XVI (2011), 1, pp. 23-44), ma, come direbbe Ivan Karamazov, ciò riguarda gli adulti, quelli che “hanno mangiato la mela”, non i bambini, che non possono dare un senso alla loro sofferenza, e quindi non possono provare il paradossale sollievo di odiare i loro persecutori. Non possono, per dirla con l'Aquinate, far “ribollire il sangue intorno al cuore”. Di più, e peggio, essi fanno atto di totale sottomissione ai loro torturatori, come la bambina frustata che invoca “papino, papino” o la cavallina di Raskol'nikov che continua a cercare di muovere un carico impossibile.
È questo cavallo, il cavallo specchio dell'umanità, e non il multiforme simbolo che spazia dagli inferi al cielo stellato. È questo il cavallo percosso nel romanzo di Hugo, atroce presagio del destino altrettanto atroce che attende l'innocente Fantine. I “fidanzati” che, in gruppo, abbandonano Fantine e le altre ragazze, sono come gli spettatori che assistono ridendo, anzi, incitando la violenza di Mikolka (nel sogno di Raskol'nikov): anch'essi distruggono un'innocenza priva di qualsiasi difesa, e se ne fanno beffe (basta ricordare il tono sinistramente ilare del biglietto d'addio alle ragazze).
Fantine è destinata a una (letterale) demolizione fisica e spirituale, ma non ci sarà ira, in lei (se non quella, tomisticamente virtuosa, nei confronti di Madeleine, del resto lesta a dissiparsi), solo disperazione.




Un uomo chiamato superuomo
Ultimora: Ex Professore Tedesco Abbraccia Cavallo in Via Po!
Un bell'articolo sulla Los Angeles Review of Books riesamina una delle scene più icastiche della storia della filosofia occidentale (forse seconda solo a quella della ragazzina tracia che ride di Talete), che suona più o meno così: Friedrich Nietzsche, il filosofo dell'Übermensch e dell'Eterno Ritorno, che vive a Torino dal 1888, l'anno seguente è protagonista di un episodio psicotico che preannuncia, anzi, segnala la sua caduta nella totale demenza; vedendo un cavallo frustato dal suo padrone, il filosofo si slancia verso l'animale, lo abbraccia piangendo, e ci vuole l'intervento della forza pubblica per trascinarlo via. Per fortuna passa da quelle parti il suo padrone di casa, Davide Fino, che gli evita l'arresto e il (probabile) internamento coatto. Ma è troppo tardi, e come scriverà l'amico Overbeck, “per Nietzsche è finita!”
No, non si tratta del banalizzatissimo caso della vita che imita l'arte, dato che l'abbraccio del cavallo quasi sicuramente non è mai avvenuto, quanto dell'emergere di una costante emotivo-culturale. Dostoevskij non conosceva Nietzsche, e quanto Nietzsche conoscesse Dostoevkij resta oggetto di discussione (cfr. Paolo Stellino, Nietzsche and Dostoevsky, on the Verge of Nihilism, Peter Lang, Berna 2015, pagg.99 sgg.), ma il legame sostanziale tra il superuomo nietzschiano e il personaggio di Raskol'nikov resta evidentissimo.
E c'è di più.
Anche Nietzsche, come il protagonista di Delitto e Castigo, ha avuto una sorta di “visione” (frammenti postumi, 14 [166]):

Soggetto per quadro. Un carrettiere. Paesaggio invernale. Il carrettiere, nell'atto di urinare, con un°espressione di sprezzante cinismo, sul suo cavallo. Il ronzino, povera creatura malmenata, si guarda intorno riconoscente, molto riconoscente...
(citato in Paolo Stellino, Op. Cit., pag.102 – Traduzione italiana da Friedrich Nietzsche, Frammenti Postumi 1888-1889, Adelphi 1974, pag.139)

Che fare di tutto questo, Dostoevskij, poi Nekrasov, di nuovo Dostoevskij, poi Hugo e poi Nietzsche?
Sembra quasi che un'oscura presenza sul monte Ida abbia diffuso, per tutto il XIX Secolo, un messaggio telepatico colto solo dagli spiriti più sensibili, un messaggio contenente l'enigmatica icona di un cavallo vittima di un'estrema crudeltà...
Scherzo.
Quello che unisce le diverse evenienze di quell'immagine è, per così dire, la percezione di una crisi dell'empatia (intesa come caratteristica imprescindibile della specie umana; chiamatela, se volete, caritas).
Hugo lancia un anatema sulla mancanza di empatia verso i dannati della terra, Dostoevskij (cioè Raskol'nikov) lotta e si dibatte tra le sue spire, Nietzsche la respinge come frutto di una moralità degenere, ma il cavallo resta lì, e sembra dire: Ecce homo.
Il risultato è che sia il percorso di Raskol'nikov, sia la leggenda torinese, sembrano implicare una confutazione radicale del concetto di übermensch.
Raskol'nikov non è un facsimile, un analogo, una sottospecie, un precursore o un epigono del superuomo nietzschiano.
Raskol'nikov è il superuomo in atto.
Il superuomo nietzschiano è solo la fantasia di potenza di un filosofo carente di empatia, e nel momento in cui prova a concretizzarsi, a incarnarsi, scopre che la cosa è “vile, infame, bassa”, come capita a Raskol'nikov. No, Napoleone non fruga sotto i letti delle vecchie strozzine.

[Incidentalmente, se il capitolo dedicato alla vita dello starec Zosima (nei Fratelli Karamazov) doveva essere una “risposta” alle devastanti argomentazioni di Ivan Karamazov (secondo quanto scriveva Dostoevskij al suo editore), si può dire che il delitto di Raskol'nikov rappresenti, simmetricamente, una risposta allo scandalo senza via d'uscita della cavallina frustata a morte: solo diventando un Napoleone, cioè considerando irrilevanti simili sofferenze, ci si potrebbe affrancare da esse, dal loro intollerabile peso sul cuore]

Per cui, non ha importanza se l'episodio torinese sia leggenda o realtà.
L'agnizione di Nietzsche, che sia reale o immaginata, è in prospettiva una rivelazione filosofica e morale.
Il sapiente che ha condannato l'empatia e la compassione definendoli vizi imperdonabili, una “mutilazione della vita”, rigetta in lacrime la sua durezza di cuore, non argomentando, non dettando una palinodia, ma abbracciando il dolore dell'innocente, diventando quel dolore.

Io salgo sulla montagna, mi volto verso oriente, mi inginocchio a terra, piango, piango e non ricordo quanto tempo piango, e non ricordo nulla e non so nulla. Poi mi alzo, mi volto indietro, e il sole tramonta ed è così grande e splendido e glorioso.
(Dostoevskij, I Demoni)




Per concludere, mi sembra inevitabile citare uno degli esempi più sublimi di questa fratellanza nella sofferenza tra cavallo ed esseri umani, La Cavalla Storna di Giovanni Pascoli (1903), dove l'empatia uomo-animale sfiora la dimensione linguistica, e dove la dimensione linguistica della narrazione attinge al canto, alla filastrocca, all'estasi profetica.
E anche qui un umano abbraccia un cavallo.



Giovanni Pascoli, La Cavalla Storna (dai Canti di Castelvecchio, 1903)


Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;


il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano
tu dai retta alla sua piccola mano.

Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla„

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia...„

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.


“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dovè pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perchè udissimo noi le sue parole„

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera.

“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come„


Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote;
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito.



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