di Domenico D'Amico
MET, Statuetta in bronzo, Grecia II-I Sec. A.C. |
Era
una giumenta della Beauce, vecchia, magra e degna del macellaio, che
trascinava un carro pesantissimo. Arrivata davanti a Bombarda, la
bestia, esausta e sfinita, si era rifiutata di andare oltre.
Quell’incidente aveva richiamato una folla. Il carrettiere,
imprecante e indignato, aveva appena avuto il tempo di pronunciare
con l’energia conveniente la parola sacramentale: Bastardo!
sottolineata da un’implacabile frustata, che il ronzino era caduto
per non più rialzarsi.
(Victor
Hugo, I Miserabili)
Avviso
ai naviganti
Quando,
man mano che ci inoltriamo nei Miserabili di Victor Hugo, mi
sono trovato davanti questa scena, non ho potuto non pensare a
Dostoevskij. Un quadro simile lo scrittore russo lo evoca due volte.
La prima in Delitto e Castigo, nel sogno (o meglio, incubo)
che coglie il protagonista quando ancora non riesce a decidersi di
uccidere l'usuraia: una povera cavallina viene sottoposta dal padrone
(con l'incitamento degli astanti ubriachi) ad atroci sofferenze che
la portano alla morte, mentre il protagonista (che si vede bambino)
l'abbraccia piangendo.
"– Finiamola!
– grida Mikolka, e balza giù, come impazzito, dal carro. Alcuni
ragazzi, anch’essi rossi e ubriachi, afferrano quel che capita:
fruste, bastoni, la stanga, e corrono dalla cavalluccia agonizzante.
Mikolka si ferma di fianco e comincia a picchiarla inutilmente sulla
schiena con la spranga. La rozza protende il muso, manda un pesante
sospiro e muore."
L'orribile
quadro viene rievocato anche nei Fratelli
Karamazov,
ma in maniera più mediata. Ivan Karamazov lo descrive come derivato
dalla lettura di una poesia di Nikolaj Nekrasov. Questa poesia
sarebbe O
pogode (1859)
(cfr. Kenneth Lantz, The
Dostoevsky Encyclopedia,
Greenwood Press 2004, pag.275), ma forse sarebbe più esatto dire che
si tratta della poesia Do
sumerek
che fa parte del poema narrativo O
pogode
(cfr. Daniela
Stella (a cura di), Il
Grande Inquisitore. Interpretazioni nel pensiero russo,
Accademia University Press 2015, pag.168
n.4).
Tuttavia, la pubblicazione di Delitto
e Castigo
(1866) è successiva a quella del poema di Nekrasov, e pure, se è
per questo, alla pubblicazione dei Miserabili,
che Dostoevskij avrebbe “divorato” quando, nel 1862, visitava
Firenze in compagnia del poeta Nikolai Strakhov (cfr. Kenneth Lantz,
Op.
Cit.,
pag.191).
Dovremmo
metterci a caccia di una presunta primazia?
No,
credere in una meccanica concatenazione di ispirazioni sarebbe
ingenuo:
Una
gran mole di acume critico è stata spesa per rintracciare le origini
letterarire del famoso sogno di Raskol'nikov. (...) Sono stati
descritti numerosi schemi: da Hugo a
Kekrasov e
Dostoevskij, da Hugo e
Nekrasov a
Dostoevskij, da Hugo a
Nekrasow e quindi a
Dostoevskij. (...) Dostoevskij, se interrogato su queste diverse
influenze, probabilmente avrebbe risposto: 'A quel tempo non ci
pensavo proprio, ma probabilmente i ciritici hanno ragione.'
(Jacques
Catteau, Dostoyevsky
and the Process of Literary Creation,
Cambridge University Press 1989, pag.45-46 – traduzione mia dalla
versione inglese).
Sia
quel che sia, in entrambi gli autori la figura del cavallo è un
segnale.
Nel
caso di Hugo, si tratta di una scheggia conficcata nella descrizione
dei divertimenti di Fantine, delle sue amiche e i relativi
innamorati. È come se Hugo lanciasse un ammonimento: attenti, tra
poco su questi spassi precipiterà la tragedia.
Peter Paul Rubens, Achille istruito dal centauro Chirone (1635), Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen |
Cavalcare
il centauro
L'immagine
del cavallo (che nella cultura indoeuropea abbraccia un campo
simbolico mutevole e sterminato) qui riveste un ruolo specifico: è
lo specchio rivelatore dell'innocenza vittima del male, e della
capacità umana di partecipare del suo dolore.
Per
l'uomo il cavallo è qualcosa di più di un compagno (come può
esserlo il cane), anzi, nel caso del cavaliere, evoca la fusione
umano-animale, sia storica (il guerriero mongolo) sia mitica (il
centauro).
Nell'Inferno
di Dante, il girone dei violenti, messi a bagno nel sangue bollente
del Flegetonte, è pattugliato da plotoni di centauri, comandati dal
reputatissimo Chirone, in vita sensei
di grandi eroi come Achille.
Il
gesto con cui Chirone introduce le sue osservazioni, è solenne e
(quasi) rituale: utilizzando una freccia (simbolo del Sagittario,
costellazione in cui il centauro è stato trasfigurato da Zeus) “fece
la barba indietro alle mascelle” (Inf. XII, 78), cioè si dispone,
scoperta la bocca, a parlare. Tale scriminatura richiama quella delle
chiome candide di Catone, (Purg. I, 36) “de' quai cadeva al petto
doppia lista”.
Potrebbe
sembrare un accostamento stridente, se non inopportuno: dopotutto i
centauri svolgono un ruolo di ispezione e sorveglianza in un girone
infernale, insomma fanno i secondini, mentre il magnanimo uticense,
ormai assunto alla beatitudine, funge da portiere, da “buttadentro”
del Purgatorio. Ma occorre anche rilevare come, tra tutte le creature
non umane incontrate da Dante nella sua tappa sotterranea, i centauri
delineino un profilo assolutamente unico. I vari Pluto, Minosse,
Cerbero, Gerione posseggono tratti estremamente negativi e degradati;
lo stesso Minotauro, che Dante e Virgilio incontrano poco prima di
imbattersi nei centauri (e che non è impossibile Dante si figurasse
come una specie di centauro semibovino – accenno di Sermonti)
mostra le caratteristiche che la cultura classica invece attribuiva
ai centauri (con l'eccezione, ovviamente, di Chirone): è bestiale,
frenetico, scatenato, mentre i centauri danteschi sono affidabili e
disciplinati. Quando Dante sale in groppa a Nesso, in lui non c'è
traccia di inquietudine (Virgilio, addirittura, delegherà al
centauro la funzione di guida e accompagnatore), mentre quando
inforcherà Gerione o sarà preso in mano dal gigante Anteo, verrà
quasi sopraffatto dalla paura.
Può
darsi che, come osserva Giorgio Inglese, questa differenziazione
abbia una qualità essenzialmente stilistica. Tuttavia, sempre sulle
orme di Sermonti, non possiamo evitare di accostare questo
atteggiamento di fiducia, rispetto ed empatia, alla natura speciale
del rapporto uomo-cavallo nel contesto della civiltà euro-asiatica
cui accennavamo più sopra, empatia che può giungere alla
parificazione del valore dell'esistenza tra le due specie (basti
pensare all'esempio del Michael Kohlhaas di Kleist).
Assenza
di ferite da difesa
Proprio
per la sua prossimità con l'umano, la figura del cavallo ne può
raffigurare in modo, per così dire, distillato la condizione. La
cavallina di Raskol'nikov non prefigura tanto quella di Nekrasov
citata da Ivan Karamazov, ma piuttosto i bambini come vittime
assolute e definitive descritti, di nuovo, nel discorso di
“ribellione” di Ivan. La cavallina, così come i bambini, non può
frapporre alcun ostacolo, alcun diaframma culturale, tra sé e la
violenza che subisce.
Nella
teologia scolastica si distingue tra ira buona e ira cattiva, dato
che l'indignazione che il giusto prova di fronte al peccato non può
essere considerata negativamente (cfr. L’ira
secondo Tommaso d’Aquino,
in Rivista
di Teologia di Lugano,
XVI (2011), 1, pp. 23-44),
ma, come direbbe Ivan Karamazov, ciò riguarda gli adulti, quelli
che “hanno mangiato la mela”, non i bambini, che non possono dare
un senso alla loro sofferenza, e quindi non possono provare il
paradossale sollievo di odiare i loro persecutori. Non possono, per
dirla con l'Aquinate, far “ribollire il sangue intorno al cuore”.
Di più, e peggio, essi fanno atto di totale sottomissione ai loro
torturatori, come la bambina frustata che invoca “papino, papino”
o la cavallina di Raskol'nikov che continua a cercare di muovere un
carico impossibile.
È
questo cavallo, il cavallo specchio dell'umanità, e non il
multiforme simbolo che spazia dagli inferi al cielo stellato. È
questo il cavallo percosso nel romanzo di Hugo, atroce presagio del
destino altrettanto atroce che attende l'innocente Fantine. I
“fidanzati” che, in gruppo, abbandonano Fantine e le altre
ragazze, sono come gli spettatori che assistono ridendo, anzi,
incitando la violenza di Mikolka (nel sogno di Raskol'nikov):
anch'essi distruggono un'innocenza priva di qualsiasi difesa, e se ne
fanno beffe (basta ricordare il tono sinistramente ilare del
biglietto d'addio alle ragazze).
Fantine
è destinata a una (letterale) demolizione fisica e spirituale, ma
non ci sarà ira, in lei (se non quella, tomisticamente virtuosa, nei
confronti di Madeleine, del resto lesta a dissiparsi), solo
disperazione.
Un
uomo chiamato superuomo
Ultimora:
Ex Professore Tedesco Abbraccia Cavallo in Via Po!
Un
bell'articolo sulla Los
Angeles Review of Books
riesamina una delle scene più icastiche della storia della filosofia
occidentale (forse seconda solo a quella della ragazzina tracia che
ride di Talete), che suona più o meno così: Friedrich Nietzsche, il
filosofo dell'Übermensch
e dell'Eterno Ritorno, che vive a Torino dal 1888, l'anno seguente è
protagonista di un episodio psicotico che preannuncia, anzi, segnala
la sua caduta nella totale demenza; vedendo un cavallo frustato dal
suo padrone, il filosofo si slancia verso l'animale, lo abbraccia
piangendo, e ci vuole l'intervento della forza pubblica per
trascinarlo via. Per fortuna passa da quelle parti il suo padrone di
casa, Davide Fino, che gli evita l'arresto e il (probabile)
internamento coatto. Ma è troppo tardi, e come scriverà
l'amico Overbeck, “per Nietzsche è finita!”
No,
non si tratta del banalizzatissimo caso della vita che imita l'arte,
dato che l'abbraccio del cavallo quasi sicuramente non è mai
avvenuto, quanto dell'emergere di una costante emotivo-culturale.
Dostoevskij non conosceva Nietzsche, e quanto Nietzsche conoscesse
Dostoevkij resta oggetto di discussione (cfr. Paolo Stellino,
Nietzsche and Dostoevsky, on the Verge of Nihilism, Peter
Lang, Berna 2015, pagg.99 sgg.), ma il legame sostanziale tra il
superuomo nietzschiano e il personaggio di Raskol'nikov resta
evidentissimo.
E
c'è di più.
Anche
Nietzsche, come il protagonista di Delitto
e Castigo, ha avuto una sorta di
“visione” (frammenti postumi, 14 [166]):
Soggetto
per quadro. Un carrettiere. Paesaggio invernale. Il
carrettiere, nell'atto di urinare, con un°espressione di sprezzante
cinismo, sul suo cavallo. Il ronzino, povera creatura malmenata, si
guarda intorno riconoscente, molto riconoscente...
(citato
in Paolo Stellino, Op. Cit., pag.102 – Traduzione italiana
da Friedrich Nietzsche, Frammenti Postumi 1888-1889, Adelphi
1974, pag.139)
Che
fare di tutto questo, Dostoevskij, poi Nekrasov, di nuovo
Dostoevskij, poi Hugo e poi Nietzsche?
Sembra
quasi che un'oscura presenza sul monte Ida abbia diffuso, per tutto
il XIX Secolo, un messaggio telepatico colto solo dagli spiriti più
sensibili, un messaggio contenente l'enigmatica icona di un cavallo
vittima di un'estrema crudeltà...
Scherzo.
Quello
che unisce le diverse evenienze di quell'immagine è, per così dire,
la percezione di una crisi dell'empatia (intesa come caratteristica
imprescindibile della specie umana; chiamatela, se volete, caritas).
Hugo
lancia un anatema sulla mancanza di empatia verso i dannati della
terra, Dostoevskij (cioè Raskol'nikov) lotta e si dibatte tra le sue
spire, Nietzsche la respinge come frutto di una moralità degenere,
ma il cavallo resta lì, e sembra dire: Ecce homo.
Il
risultato è che sia il percorso di Raskol'nikov, sia la leggenda
torinese, sembrano implicare una confutazione radicale del concetto
di übermensch.
Raskol'nikov
non è un facsimile, un analogo, una sottospecie, un precursore o un
epigono del superuomo nietzschiano.
Raskol'nikov
è il superuomo in atto.
Il
superuomo nietzschiano è solo la fantasia di potenza di un filosofo
carente di empatia, e nel momento in cui prova a concretizzarsi, a
incarnarsi, scopre che la cosa è “vile, infame, bassa”, come
capita a Raskol'nikov. No, Napoleone non fruga sotto i letti delle
vecchie strozzine.
[Incidentalmente,
se il capitolo dedicato alla vita dello starec Zosima (nei
Fratelli Karamazov) doveva essere una “risposta” alle
devastanti argomentazioni di Ivan Karamazov (secondo quanto scriveva
Dostoevskij al suo editore), si può dire che il delitto di
Raskol'nikov rappresenti, simmetricamente, una risposta allo scandalo
senza via d'uscita della cavallina frustata a morte: solo diventando
un Napoleone, cioè considerando irrilevanti simili
sofferenze, ci si potrebbe affrancare da esse, dal loro intollerabile
peso sul cuore]
Per
cui, non ha importanza se l'episodio torinese sia leggenda o realtà.
L'agnizione
di Nietzsche, che sia reale o immaginata, è in prospettiva una
rivelazione filosofica e morale.
Il
sapiente che ha condannato l'empatia e la compassione definendoli
vizi imperdonabili, una “mutilazione della vita”, rigetta in
lacrime la sua durezza di cuore, non argomentando, non dettando una
palinodia, ma abbracciando il dolore dell'innocente, diventando
quel dolore.
Io
salgo sulla montagna, mi volto verso oriente, mi inginocchio a terra,
piango, piango e non ricordo quanto tempo piango, e non ricordo nulla
e non so nulla. Poi mi alzo, mi volto indietro, e il sole tramonta ed
è così grande e splendido e glorioso.
(Dostoevskij,
I Demoni)
Per
concludere, mi sembra inevitabile citare uno degli esempi più
sublimi di questa fratellanza nella sofferenza tra cavallo ed esseri
umani, La Cavalla Storna di Giovanni Pascoli (1903), dove
l'empatia uomo-animale sfiora la dimensione linguistica, e dove la
dimensione linguistica della narrazione attinge al canto, alla
filastrocca, all'estasi profetica.
E
anche qui un umano abbraccia un cavallo.
Giovanni
Pascoli, La Cavalla Storna (dai Canti di Castelvecchio,
1903)
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla„
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia...„
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dovè pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perchè udissimo noi le sue parole„
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera.
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come„
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote;
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito.
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