di Domenico D'Amico
Le
antiche divinità olimpiche appaiono in Dante solo come emblema, o
contrassegno della divinità trinitaria (soprattutto quando allude al
Figlio, o al Padre, chiamandoli “sommo Giove”) e delle sostanze
angeliche. Drammaticamente troppo ingombranti (che incarico
affidargli?), patiscono forse l'estinzione cultuale che hanno subito
con l'avvento del Cristianesimo.
Ci
sarebbe un'eccezione, il Pluto del Canto VII, figura ambigua, dato
che è possibile Dante non facesse distinzione tra Plutus, Pluti
(dio della ricchezza) e Pluto, Plutonis (cioè Ades, re degli
Inferi), e anche perché, a differenza di altre creature traghettate
dal mito classico all'immaginario dantesco (Minosse, Caco, il
Minotauro, i Centauri, le Arpie, eccetera) questa figura non sembra
avere nessuna funzione all'interno della struttura penitenziaria
infernale. Inoltre, visto che chi “comanda” laggiù non è lui,
ma Lucifero (cioè Satana, che Pluto invoca col celebre “Pape Satan
Pape Satan Aleppe”), non ce lo vediamo proprio come divinità
olimpica decaduta, o forse la definizione di “gran nimico” è da
attribuire alla sua parentela (Ades, dopotutto è il fratello di
Zeus), per cui, se Giove può essere emblema di Dio, o di Cristo,
Plutone può esserlo di Satana.
Chissà.
Ma
se gli dèi latitano nell'Inferno dantesco, le creature mitologiche,
per così dire, gerarchicamente inferiori, sono una vera folla.
Alcune
di esse sono smaccatamente incanaglite (Cerbero, Minosse, Caco, il
Minotauro), altre decisamente no.
In
precedenza abbiamo accennato all'eccezione costituita dai centauri,
ma ci siamo dimenticati delle arpie (di cui il pellegrino Dante ci
informa, senza mai dire se le abbia viste direttamente). È vero che
il loro ruolo (quello di potare le anime-albero dei suicidi, causando
“dolore, e al dolor fenestra”) le avvicina ai diavoli veri e
propri, ma, diciamolo, continuano a fare quello che facevano sulla
Terra, rendere la vita impossibile a quelli (come gli esuli troiani)
che se le ritrovano tra i piedi.
Caso
diverso, secondo la mia modestissima opinione, quello delle Erinni,
che Dante e Virgilio vedono sbraitare in cime alle mura della città
di Dite. Quale mai potrebbe essere la loro funzione?
Dante
segue l'esempio di Virgilio e Ovidio (vedendo le Furie più come
seminatrici di discordia e caos che vendicatrici) ed è vero che le
“meschine” di Proserpina abitano il luogo dove vengono puniti i
frodolenti, ma è evidente che non se ne vanno in giro a tormentarli
(come fanno i diavoli dell'immaginario cristiano).
Commettendo
uno sfrontato sincretismo, dato che difficilmente Dante ebbe
cognizione delle Eumenidi di Eschilo, oserei dire che Aletto,
Tisifone e Megera si trovano negli Inferi in pensione.
Una
volta divenute “benevole” a vantaggio del matricida Oreste, e in
seguito obliterate dal culto del vincente cristianesimo, dove altro
sarebbero potute andare, se non in posto, diciamolo, congeniale al
loro carattere arcigno? Per loro, la città di Dite, con le sue
“meschite” infuocate, sarebbe l'equivalente della Florida degli
anziani statunitensi.
Quanto
al loro comportamento alla vista di Dante, potrebbe sembrarci
eccessivo (strillano e si graffiano il petto), tanto da farle
sembrare ancora le Furie che erano un tempo, ma è solo questione di
abitudine, è il loro “normale” modo di manifestare dispetto, in
questo caso per l'arrivo di un inaudito rompiscatole (un vivo!) che
si presenta a turbare il loro tranquillo ritiro.
Si
tratta, l'avrete capito, solo di un'ipotesi giocosa; in ogni caso
sono orgoglioso dell'endecasillabo che le fa da titolo.
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