giovedì 11 giugno 2020

Jean Valjean, Pinocchio, Sabrina e il genero di Marx


di Domenico D'Amico


Cosette chi?
Sir Peter Lely, Girl with a Parrot (c.1670) Tate Gallery


Fuorché Bonturo
“Non è fare soldi lo scopo principale dell'impresa [business]. I soldi sono un sottoprodotto.
(…)
Si sviluppa un nuovo prodotto, qualcosa di utile per il mondo.
Una nuova industria arriva in un'area sottosviluppata. Nascono fabbriche, macchine si mettono in moto, e l'impresa ha inizio [you're in business]. Allo stesso tempo [It's coincidental that] gente che non ha mai visto dieci centesimi si ritrova con un dollaro, bambini scalzi si mettono le scarpe e si lavano la faccia. Che c'è di sbagliato in un impulso [urge] che dà alla gente biblioteche, ospedali, campi da baseball e i film del sabato sera?”
(Linus Larrabee/Humphrey Bogart in Sabrina, Billy Wilder 1954)

Nel film Sabrina, il personaggio interpretato da Humphrey Bogart rappresenta il moderno “capitalista ideale”, contrapposto alla vecchia generazione dalle tendenze aristocratiche (il padre Oliver, figlio di robber barons) e a quella dei vitelloni sfrusciadollari (il fratello David).
Questo quadretto imbelletta una realtà abominevole.
Sabrina è del 1954, lo stesso anno in cui gli Stati Uniti danno il via alla macellazione del popolo guatemalteco (tra i tanti), proprio in nome del “business” (vedi United Fruits), e nel film è onnipresente la canna da zucchero: chiaramente, quando Bogart parla di aree di sottosviluppo locupletate di ospedali, calzature e campi da baseball, non si sta riferendo al Kentucky.
[Incidentalmente, dovreste vedere i vari cultisti-von Mises che sbrodolano su queste cose, e che continuano a glorificare il “capitalismo” – come lo intendono loro – quale modello ineguagliabile di società. Del resto, in questo campo assistiamo a livelli di rimozione che hanno dello sbalorditivo. Ad esempio, la celebre autrice di thriller Kathy Reichs, nel romanzo Grave Secrets riesce a inviare la sua eroina Temperance Brennan in Guatemala, a esumare scheletri dalle fosse comuni, nella sua veste di antropologa legale – esperienza fatta in prima persona dalla scrittrice stessa – senza mai fare il minimo cenno al ruolo avuto dagli Stati Uniti in quella “guerra civile”!
E vi assicuro che le tempeste di fuoco di Dresda furono causate da un arricciacapelli incustodito]


“un testimone ha visto aprire il ventre dei bambini con coltelli e poi sbatterli contro il muro per spaccargli la testa”
(Tribunale Permanente dei Popoli, Guatemala, Madrid 27-31 gennaio 1983)

[Si badi: non sto trasformando un'osservazione politico-economica in un giudizio morale in campo estetico. Non mi sono ancora fritto il cervello abbastanza da trovare “abbietta” la carrellata di Kapò. Sabrina è un capolavoro, e ogni volta che guardo l'immagine di Audrey Hepburn ringrazio il destino per l'immeritato privilegio]
Ora, il capitalista ideale interpretato da Bogart non è un filantropo. Per lui il fare affari è una vocazione, un impulso (urge), e le conseguenze benefiche per la gente comune sono un effetto secondario (byproduct) di questa attività. È sul piano morale che vocazione ed empatia, miracolosamente, trovano una sintesi. Il capitalista, che dopotutto è un essere umano (e quindi non promuoverebbe mai colpi di stato, campagne terroristiche, stragi e deportazioni, genocidi, eccetera), ricava una certa soddisfazione dal fatto che, pur seguendo una personale inclinazione, il risultato implichi anche il benessere generale.
È la versione favola hollywoodiana della vecchia bufala etica protestante-capitalismo.
Ma il business di Valjean-Madeleine è del tutto diverso.
Nemmeno Madeleine è un filantropo. La sua industria prospera perché realizza un prodotto a prezzi concorrenziali (come abbia fatto il forzato di origine contadina a ideare un'intera filiera produttiva nel campo della bigiotteria di media qualità, resta un mistero alla Montecristo), la differenza sta nel controllo (politico: Madeleine è il sindaco) della redistribuzione dei profitti. L'ospedale, la scuola, il sussidio per vecchi e malati (ma anche, se è per questo, la piena occupazione) non è un sottoprodotto dell'attività imprenditoriale (come nell'ideale capitalistico di Sabrina), ma opera diretta di Madeleine.
È questo, il controllo politico dell'economia, che genera il benessere collettivo. Difatti, una volta che Jean Valjean è tornato in prigione, tutta la sua “utopia” va in malora.
Da questo punto di vista Dumas è più drastico. Anche per Montecristo la ricchezza è un mezzo e non un fine (il fine è la vendetta), ma la parte economica dei suoi intrighi è di natura esclusivamente finanziaria, in un contesto narrativo in cui tale attività viene descritta come fondamentalmente fraudolenta (in questo Dumas è più “contemporaneo” di Hugo), mentre i riferimenti ai “nuovi prodotti”, citando ad esempio il nome di Nicolas Appert, sono al limite del sardonico.
Valjean salva Cosette dalla miseria perché è corresponsabile della rovina di Fantine (“Papà Madeleine chiedeva agli uomini buona volontà, alle donne condotta irreprensibile, a tutti onestà.”), e anche perché aspira a una vita pienamente umana (di questo parleremo prossimamente), mentre Montecristo salva dalla bancarotta e dal disonore Morrel (e famiglia) perché si ritiene agente della Provvidenza (e per gratitudine personale).
[Incidentalmente, quale immensa distanza separa queste figure da quella, tanto per dire, di uno Svidrigajlov, che salva dalla miseria i figli di Marmeladov in un ultimo atto di pura, immotivata scelta - e poi si ammazza]
La cittadina modello di Hugo ricorda l'Isola delle Api Industriose di Collodi, anche se l'utopia pinocchiesca è appena abbozzata: va tutto bene perché tutti hanno voglia di lavorare, non ci sono vagabondi e fannulloni e gli unici oziosi sono vecchi e infermi (per questi ultimi non sembrano esistere ammortizzatori sociali, ma una sorta di elemosina collettiva). Si direbbe che l'Isola delle Api Industriose condivida col capitalismo di Bogart l'esclusione del controllo politico sull'economia...
Ma il modello di “capitalismo umanitario” di Collodi dev'essere visto nel contesto del romanzo, quindi nel suo rapporto col tipo di società incarnato dal Paese dei Barbagianni. Quest'ultimo non è un banale “mondo alla rovescia” (dove i truffati vengono messi in prigione), ma configura, come un'ombra, la natura intrinseca dell'utopica Isola delle Api Industriose, il quale non è altro che un'illusione tesa a celare la natura truffaldina dei rapporti di classe capitalistici.

Illustrazione di Maria L. Kirk per l'edizione di lusso di Pinocchio, J. B. Lippincott, Philadelphia, 1916

A tal proposito, bisogna sottolineare l'importanza di un termine, hustle, indispensabile per comprendere lo spirito del capitalismo. Questo termine non ha un corrispettivo, nemmeno approssimativo, in italiano. Morris Berman, nei suoi libri, mette il concetto di hustle al centro della sua critica della cultura statunitense.



Ho affermato che non c'è un termine italiano che possa tradurre hustle con accettabile precisione, ma non è esatto. Una tale parola (per quanto desueta) esiste, e ci viene fornita da Dante nel suo Inferno. La parola è baratteria.
Verifichiamo.
Hustle: spintonare, sollecitare, darsi da fare, trafficare, truffare, imbonire, imbrogliare [fonti varie].
Baratteria: “Il verbo «barattare», col suo sciame di «baratto», «baratta», «baratteria», «barattiere», copre, fra Due e Trecento, un campo semantico molto ampio. Appeso a un ètimo lontano e controverso, dirama dal francese sulle lingue romanze una ragnatela di significati che include «l’agire», «l’agitarsi», «il litigare», «il darsi da fare», «il fare affari», «il negoziare», «il trafficare», «l’indebitarsi», ecc. ecc. (…) Nel lessico giudiziario (…) era il termine tecnico che indicava i reati di peculato per distrazione, concussione, malversazione, interesse privato in atti d’ufficio, corruzione di magistrati, e, più in generale, ogni forma di corruzione attiva o passiva messa in atto nella sfera pubblica.” [Sermonti]
Ecco come Berman delinea il concetto: “Come ebbe ad affermare trentadue anni fa un consigliere del presidente Carter, gli Stati Uniti sono una società che si basa sugli obbiettivi, pur essendone totalmente priva (a goal-oriented society without goals)”.
Hustle ha anche il pregio di poter essere il vessillo degli “imprenditori di se stessi”, se inteso come “procedere o lavorare rapidamente o energicamente; essere aggressivo, specialmente negli affari”, perché, onestamente, nessuno avrebbe il coraggio di scrivere un libro intitolato “L'imbroglio è la chiave del successo”.
O forse sì.
C'è anche qualcuno che ci ripensa.
[Incidentalmente, è interessante, e rivelatore, l'elogio tributato all'aggressività. Non si tratta solo di un'etica del lavoro che prevede un grande impegno nel realizzare qualcosa (il “nuovo prodotto” di Bogart-Larrabee) che abbia successo sul mercato, ma dell'idea che il successo implichi di necessità conquistare, abbattere, sconfiggere, in parole povere fregare qualcun altro]



Papà Madeleine o papà Marx?
Ma torniamo a noi, o meglio all'utopia di papà Madeleine...
È naturale che la sinistra “post” (anche quella ante litteram) guardi con aperto sospetto a un controllo politico che non abbia come obbiettivo primario il sole dell'avvenire (estinzione dello Stato, superamento della divisione in classi, emancipazione totale, leoni e agnelli che dormono insieme, ratti e cozze che giocano a briscola, eccetera).
Qualsiasi marxista degno di questo nome diffiderebbe delle sparate “profetiche” che costellano I Miserabili, roba da socialismo utopistico, da sansimoniani.
Esemplare è la spietata e puntuale critica che Paul Lafargue rivolge a Hugo, cosa abbastanza comprensibile da parte del genero di Marx.
Ai suoi occhi, innanzitutto, Hugo è un'ipocrita, o, quantomeno un parolaio megalomane.
Straparla di oppressi, di sommosse e rivoluzioni, ma intanto condanna i moti del 1848 (atto imperdonabile per qualsiasi marxista – Il Manifesto viene pubblicato proprio in quell'anno fatidico), è ossequioso con tutti i governi, tranne che con quello di Napoleone III, ma anche in questo caso non è di certo un ribelle, casomai un esiliato di lusso: “I re l’avevano pensionato con la somma di tremila franchi; la sua clientela borghese gli fruttava cinquantamila franchi l’anno”.
Hugo è, oltretutto, un prodigio di avidità, uno che ha accumulato cinque milioni “vendendo frasi e parole”, ma lo stesso briga incessantemente per ogni pensione o vitalizio di stato su cui può mettere le mani, ed è cliente di Rothschild, e nasconde i soldi all'estero perché in Francia non si sa mai. Roba da quarto cerchio dell'Inferno!
La sua stessa morte, con annesso tributo di folle oceaniche, è vista come un evento puramente esteriore, consumistico: “Commercio di fiori e di emblemi mortuari: commercio di giornali, di incisioni, di lire in zinco bronzato, dorato, argentato, di medaglie, di effigi montate su spille; commercio di crespo nero, di scarpe, di nastri tricolori e multicolori...”
Secondo Lafargue, l'iniziativa imprenditoriale di Valjean-Madeleine è emblema del conformismo ideologico di Hugo: tante prediche sugli ultimi, ma alla fine rappresenti lo sfruttamento degli operai come fosse una specie di utopia!
Il problema, con Lafargue, non è stabilire se abbia ragione o meno, quanto piuttosto il fatto che, dal nostro punto di vista, la sua prospettiva non ci dice nulla sullo Hugo narratore. Dato che il nostro interesse, ora come ora, è avere qualcosa da dire su un certo libro intitolato I Miserabili, dobbiamo constatare che se considerassimo “soddisfacente” il ritratto che Lafargue dipinge di Hugo, la mera esistenza di un monstrum come Les Miserables risulterebbe del tutto incomprensibile, di più, impossibile.
Gli è che, come dice Eco, Victor Hugo si ammantava del ruolo di Dio, e pur non essendolo, ci andava vicino. Era un titano, con o senza le sue miserie politiche, etiche o finanziarie.
Nonostante la nostra simpatia per Lafargue (ad esempio per le sue sacrosante filippiche sul diritto alla pigrizia), non possiamo non ipotizzare che lo stesso popolo che vedeva nel cadavere eccellente di Hugo un'occasione di guadagno (“Dovrebbe morire ogni settimana un Victor Hugo per far marciare il commercio!”), poteva benissimo, al contempo, provare un sentimento di venerazione e gratitudine nei suoi confronti.
Non si tratta di un processo dialettico, hegeliano o marxiano che sia (mercificazione vs santificazione = venerazione istituzionalizzata), e neanche di un caso di doublethink orwelliano (cinico sfruttamento e ingenua idolatria procedono affiancati, ma impermeabili l'uno rispetto all'altra), ma un esempio di scelta dostoevskiana (con tutto il rispetto per Pareyson, nei fatti la distinzione tra libertà degli uomini e libertà dei demoni, in Dostoevslij è irrilevante) nella quale due alternative possono coesistere anche se del tutto irriducibili l'una rispetto all'altra, perché il passaggio fra l'una e l'altra è radicalmente arbitrario. È quello che il dottor Cilli chiama l'Effetto Schrödinger-Dostoevskij: la libertà della scelta, nell'uomo, viene portata a un limite così estremo da rendere potenzialmente contemporanee opzioni del tutto incompatibili, come nel paradosso del celebre gatto.
[Incidentalmente, è quello che accade col gatto Behemoth nel Maestro e Margherita, che è indifferentemente un felino grosso come un maiale che cammina sulle zampe posteriori, oppure un tizio grassoccio con baffi da cavalleggero]
Ma di questo, basti.

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