di
Domenico D'Amico
Cosette chi?
Sir
Peter Lely, Girl with a Parrot (c.1670) Tate Gallery
Fuorché
Bonturo
“Non
è fare soldi lo scopo principale dell'impresa [business]. I soldi
sono un sottoprodotto.
(…)
Si
sviluppa un nuovo prodotto, qualcosa di utile per il mondo.
Una
nuova industria arriva in un'area sottosviluppata. Nascono fabbriche,
macchine si mettono in moto, e l'impresa ha inizio [you're in
business]. Allo stesso tempo [It's coincidental that] gente che non
ha mai visto dieci centesimi si ritrova con un dollaro, bambini
scalzi si mettono le scarpe e si lavano la faccia. Che c'è di
sbagliato in un impulso [urge] che dà alla gente biblioteche,
ospedali, campi da baseball e i film del sabato sera?”
(Linus
Larrabee/Humphrey Bogart in Sabrina, Billy Wilder 1954)
Nel
film Sabrina, il personaggio interpretato da Humphrey Bogart
rappresenta il moderno “capitalista ideale”, contrapposto alla
vecchia generazione dalle tendenze aristocratiche (il padre Oliver,
figlio di robber
barons)
e a quella dei vitelloni sfrusciadollari (il fratello David).
Questo
quadretto imbelletta una realtà abominevole.
Sabrina
è del 1954, lo stesso anno in cui gli Stati Uniti danno il via alla
macellazione
del popolo guatemalteco (tra i tanti), proprio in nome del “business”
(vedi United Fruits), e nel film è onnipresente la canna da
zucchero: chiaramente, quando Bogart parla di aree di sottosviluppo
locupletate di ospedali, calzature e campi da baseball, non si sta
riferendo al Kentucky.
[Incidentalmente,
dovreste vedere i vari cultisti-von Mises che sbrodolano su queste
cose, e che continuano a glorificare il “capitalismo” – come lo
intendono loro – quale modello ineguagliabile di società. Del
resto, in questo campo assistiamo a livelli di rimozione che hanno
dello sbalorditivo. Ad esempio, la celebre autrice di thriller Kathy
Reichs, nel romanzo Grave Secrets riesce a inviare la sua
eroina Temperance Brennan in Guatemala, a esumare scheletri dalle
fosse comuni, nella sua veste di antropologa legale – esperienza
fatta in prima persona dalla scrittrice stessa – senza mai fare
il minimo cenno al ruolo avuto dagli Stati Uniti in quella
“guerra civile”!
E
vi assicuro che le tempeste di fuoco di Dresda
furono causate da un arricciacapelli incustodito]
“un
testimone ha visto aprire il ventre dei bambini con coltelli e poi
sbatterli contro il muro per spaccargli la testa”
(Tribunale
Permanente dei Popoli, Guatemala,
Madrid 27-31 gennaio 1983)
[Si
badi: non sto trasformando un'osservazione politico-economica in un
giudizio morale in campo estetico. Non mi sono ancora fritto il
cervello abbastanza da trovare “abbietta” la carrellata di Kapò.
Sabrina è un capolavoro, e ogni volta che guardo l'immagine
di Audrey Hepburn ringrazio il destino per l'immeritato privilegio]
Ora,
il capitalista ideale interpretato da Bogart non è un filantropo.
Per lui il fare affari è una vocazione, un impulso (urge), e
le conseguenze benefiche per la gente comune sono un effetto
secondario (byproduct) di questa attività. È sul piano
morale che vocazione ed empatia, miracolosamente, trovano una
sintesi. Il capitalista, che dopotutto è un essere umano (e quindi
non promuoverebbe mai colpi di stato, campagne terroristiche, stragi
e deportazioni, genocidi, eccetera), ricava una certa soddisfazione
dal fatto che, pur seguendo una personale inclinazione, il risultato
implichi anche il benessere generale.
È
la versione favola hollywoodiana della vecchia bufala etica
protestante-capitalismo.
Ma
il business di Valjean-Madeleine è del tutto diverso.
Nemmeno
Madeleine è un filantropo. La sua industria prospera perché
realizza un prodotto a prezzi concorrenziali (come abbia fatto il
forzato di origine contadina a ideare un'intera filiera produttiva
nel campo della bigiotteria di media qualità, resta un mistero alla
Montecristo), la differenza sta nel controllo (politico: Madeleine è
il sindaco) della redistribuzione dei profitti. L'ospedale, la
scuola, il sussidio per vecchi e malati (ma anche, se è per questo,
la piena occupazione) non è un sottoprodotto dell'attività
imprenditoriale (come nell'ideale capitalistico di Sabrina),
ma opera diretta di Madeleine.
È
questo, il controllo politico dell'economia, che genera il benessere
collettivo. Difatti, una volta che Jean Valjean è tornato in
prigione, tutta la sua “utopia” va in malora.
Da
questo punto di vista Dumas è più drastico. Anche per Montecristo
la ricchezza è un mezzo e non un fine (il fine è la vendetta), ma
la parte economica dei suoi intrighi è di natura esclusivamente
finanziaria, in un contesto narrativo in cui tale attività viene
descritta come fondamentalmente fraudolenta (in questo Dumas è più
“contemporaneo” di Hugo), mentre i riferimenti ai “nuovi
prodotti”, citando ad esempio il nome di Nicolas
Appert, sono al limite del sardonico.
Valjean
salva Cosette dalla miseria perché è corresponsabile della rovina
di Fantine (“Papà Madeleine chiedeva agli uomini buona volontà,
alle donne condotta irreprensibile, a tutti onestà.”), e anche
perché aspira a una vita pienamente umana (di questo parleremo
prossimamente), mentre Montecristo salva dalla bancarotta e dal
disonore Morrel (e famiglia) perché si ritiene agente della
Provvidenza (e per gratitudine personale).
[Incidentalmente,
quale immensa distanza separa queste figure da quella, tanto per
dire, di uno Svidrigajlov, che salva dalla miseria i figli di
Marmeladov in un ultimo atto di pura, immotivata scelta - e poi si
ammazza]
La
cittadina modello di Hugo ricorda l'Isola delle Api Industriose di
Collodi, anche se l'utopia pinocchiesca è appena abbozzata: va tutto
bene perché tutti hanno voglia di lavorare, non ci sono vagabondi e
fannulloni e gli unici oziosi sono vecchi e infermi (per questi
ultimi non sembrano esistere ammortizzatori sociali, ma una sorta di
elemosina collettiva). Si direbbe che l'Isola delle Api Industriose
condivida col capitalismo di Bogart l'esclusione del controllo
politico sull'economia...
Ma
il modello di “capitalismo umanitario” di Collodi dev'essere
visto nel contesto del romanzo, quindi nel suo rapporto col tipo di
società incarnato dal Paese dei Barbagianni. Quest'ultimo non è un
banale “mondo alla rovescia” (dove i truffati vengono messi in
prigione), ma configura, come un'ombra, la natura intrinseca
dell'utopica Isola delle Api Industriose, il quale non è altro che
un'illusione tesa a celare la natura truffaldina dei rapporti
di classe capitalistici.
Illustrazione di Maria L. Kirk per l'edizione di lusso di Pinocchio, J. B. Lippincott, Philadelphia, 1916 |
A
tal proposito, bisogna sottolineare l'importanza di un termine,
hustle, indispensabile per comprendere lo spirito del
capitalismo. Questo termine non ha un corrispettivo, nemmeno
approssimativo, in italiano. Morris
Berman, nei suoi libri, mette il concetto di hustle al
centro della sua critica
della
cultura statunitense.
Ho
affermato che non c'è un termine italiano che possa tradurre hustle
con accettabile precisione, ma non è esatto. Una tale parola (per
quanto desueta) esiste, e ci viene fornita da Dante nel suo Inferno.
La parola è baratteria.
Verifichiamo.
Hustle:
spintonare, sollecitare, darsi da fare, trafficare, truffare,
imbonire, imbrogliare [fonti varie].
Baratteria:
“Il verbo «barattare», col suo sciame di «baratto», «baratta»,
«baratteria», «barattiere», copre, fra Due e Trecento, un campo
semantico molto ampio. Appeso a un ètimo lontano e controverso,
dirama dal francese sulle lingue romanze una ragnatela di significati
che include «l’agire», «l’agitarsi», «il litigare», «il
darsi da fare», «il fare affari», «il negoziare», «il
trafficare», «l’indebitarsi», ecc. ecc. (…) Nel lessico
giudiziario (…) era il termine tecnico che indicava i reati di
peculato per distrazione, concussione, malversazione, interesse
privato in atti d’ufficio, corruzione di magistrati, e, più in
generale, ogni forma di corruzione attiva o passiva messa in atto
nella sfera pubblica.” [Sermonti]
Ecco
come Berman delinea
il concetto: “Come ebbe ad affermare trentadue anni fa un
consigliere del presidente Carter, gli Stati Uniti sono una società
che si basa sugli obbiettivi, pur essendone totalmente priva (a
goal-oriented society without goals)”.
Hustle
ha anche il pregio di poter essere il vessillo degli “imprenditori
di se stessi”, se inteso come “procedere
o lavorare rapidamente o energicamente; essere aggressivo,
specialmente negli affari”, perché, onestamente, nessuno
avrebbe il coraggio di scrivere un libro intitolato “L'imbroglio è
la chiave del successo”.
O
forse sì.
C'è
anche qualcuno che ci
ripensa.
[Incidentalmente,
è interessante, e rivelatore, l'elogio tributato all'aggressività.
Non si tratta solo di un'etica del lavoro che prevede un grande
impegno nel realizzare qualcosa (il “nuovo prodotto” di
Bogart-Larrabee) che abbia successo sul mercato, ma dell'idea che il
successo implichi di necessità conquistare, abbattere, sconfiggere,
in parole povere fregare qualcun altro]
Papà
Madeleine o papà Marx?
Ma
torniamo a noi, o meglio all'utopia di papà Madeleine...
È
naturale che la sinistra “post” (anche quella ante litteram)
guardi con aperto sospetto a un controllo politico che non abbia come
obbiettivo primario il sole dell'avvenire (estinzione dello Stato,
superamento della divisione in classi, emancipazione totale, leoni e
agnelli che dormono insieme, ratti e cozze che giocano a briscola,
eccetera).
Qualsiasi
marxista degno di questo nome diffiderebbe delle sparate “profetiche”
che costellano I Miserabili, roba da socialismo utopistico, da
sansimoniani.
Esemplare
è la spietata e puntuale critica che Paul Lafargue rivolge a Hugo,
cosa abbastanza comprensibile da parte del genero di Marx.
Ai
suoi occhi, innanzitutto, Hugo è un'ipocrita, o, quantomeno un
parolaio megalomane.
Straparla
di oppressi, di sommosse e rivoluzioni, ma intanto condanna i moti
del 1848 (atto imperdonabile per qualsiasi marxista – Il Manifesto
viene pubblicato proprio in quell'anno fatidico), è ossequioso con
tutti i governi, tranne che con quello di Napoleone III, ma anche in
questo caso non è di certo un ribelle, casomai un esiliato di lusso:
“I re l’avevano pensionato con la somma di tremila franchi; la
sua clientela borghese gli fruttava cinquantamila franchi l’anno”.
Hugo
è, oltretutto, un prodigio di avidità, uno che ha accumulato cinque
milioni “vendendo frasi e parole”, ma lo stesso briga
incessantemente per ogni pensione o vitalizio di stato su cui può
mettere le mani, ed è cliente di Rothschild, e nasconde i soldi
all'estero perché in Francia non si sa mai. Roba da quarto cerchio
dell'Inferno!
La
sua stessa morte, con annesso tributo di folle oceaniche, è vista
come un evento puramente esteriore, consumistico: “Commercio di
fiori e di emblemi mortuari: commercio di giornali, di incisioni, di
lire in zinco bronzato, dorato, argentato, di medaglie, di effigi
montate su spille; commercio di crespo nero, di scarpe, di nastri
tricolori e multicolori...”
Secondo
Lafargue, l'iniziativa imprenditoriale di Valjean-Madeleine è
emblema del conformismo ideologico di Hugo: tante prediche sugli
ultimi, ma alla fine rappresenti lo sfruttamento degli operai come
fosse una specie di utopia!
Il
problema, con Lafargue, non è stabilire se abbia ragione o meno,
quanto piuttosto il fatto che, dal nostro punto di vista, la sua
prospettiva non ci dice nulla sullo Hugo narratore. Dato che il
nostro interesse, ora come ora, è avere qualcosa da dire su un certo
libro intitolato I Miserabili, dobbiamo constatare che se
considerassimo “soddisfacente” il ritratto che Lafargue dipinge
di Hugo, la mera esistenza di un monstrum come Les Miserables
risulterebbe del tutto incomprensibile, di più, impossibile.
Gli
è che, come dice Eco, Victor Hugo si ammantava del ruolo di Dio, e
pur non essendolo, ci andava vicino. Era un titano, con o senza le
sue miserie politiche, etiche o finanziarie.
Nonostante
la nostra simpatia per Lafargue (ad esempio per le sue sacrosante
filippiche sul diritto alla pigrizia), non possiamo non ipotizzare
che lo stesso popolo che vedeva nel cadavere eccellente di Hugo
un'occasione di guadagno (“Dovrebbe morire ogni settimana un Victor
Hugo per far marciare il commercio!”), poteva benissimo, al
contempo, provare un sentimento di venerazione e gratitudine nei suoi
confronti.
Non
si tratta di un processo dialettico, hegeliano o marxiano che sia
(mercificazione vs santificazione = venerazione istituzionalizzata),
e neanche di un caso di doublethink orwelliano (cinico sfruttamento e
ingenua idolatria procedono affiancati, ma impermeabili l'uno
rispetto all'altra), ma un esempio di scelta dostoevskiana (con tutto
il rispetto per Pareyson, nei fatti la distinzione tra libertà degli
uomini e libertà dei demoni, in Dostoevslij è irrilevante) nella
quale due alternative possono coesistere anche se del tutto
irriducibili l'una rispetto all'altra, perché il passaggio fra l'una
e l'altra è radicalmente arbitrario. È quello che il dottor Cilli
chiama l'Effetto Schrödinger-Dostoevskij: la libertà della scelta,
nell'uomo, viene portata a un limite così estremo da rendere
potenzialmente contemporanee opzioni del tutto incompatibili, come
nel paradosso del celebre gatto.
[Incidentalmente,
è quello che accade col gatto Behemoth nel Maestro e Margherita,
che è indifferentemente un felino grosso come un maiale che cammina
sulle zampe posteriori, oppure un tizio grassoccio con baffi da
cavalleggero]
Ma
di questo, basti.
La Nostra Marca |
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