venerdì 5 luglio 2019

Montecristo, quale vendetta?

di Domenico D'Amico


Il Conte di Montecristo, oggi, può essere considerato il prototipo della moderna storia di vendetta. Alcuni dei suoi motivi narrativi portanti (la rivalsa consumata a freddo, quasi sempre sproporzionata, e un “lieto fine” per il vendicatore) sono stati riutilizzati in innumerevoli narrazioni contemporanee (sia sulla pagina sia sullo schermo).
Tuttavia non bisogna trascurare il fatto che il romanzo di Dumas sia una sorta di passaggio (o di migrazione) da una concezione classica della vendetta a una, ripetiamo, moderna (non ci occuperemo, qui, delle variazioni postmoderne alla Dürrenmat, o “pessimistiche” alla Memento, Mystic River e Big Bad Wolves, in cui la vendetta colpisce le persone sbagliate, o di variazioni metanarrative alla Inigo Montoya).
La concezione classica della vendetta ha le sue radici, ovviamente, nella tragedia attica (prototipo, l'Orestea di Eschilo), ma la struttura narrativa di base, tutt'ora corrente (anche oggi ci sono vendicatori che si “bruciano” nel concludere l'impresa), è quella che i drammaturghi inglesi (prima e dopo Shakespeare), per tramite di Seneca, hanno portato alla perfezione: la tragedia di vendetta (revenge tragedy).
Il modello cinque-secentesco della tragedia di vendetta prescrive che il vendicatore (o vendicatrice), nel portare a termine il proprio progetto di rivalsa, giunga a un eccesso talmente estremo (di crudeltà o di indifferenza verso eventuali vittime collaterali) da letteralmente consumare la propria umanità. Esito obbligato, la morte. È quello che succede nella Tragedia Spagnola di Thomas Kyd e nel Tito Andronico di Shakespeare (ma anche a Sweeney Todd), opere, da questo punto di vista, esemplari: efferata violenza, sangue a fiumi e cumuli di cadaveri.
Era la fascinazione degli autori britannici per l'aspetto sanguinario delle tragedie di Seneca a ispirare questo grand guignol, come si vede nel prototipo Gorboduc (che è del 1561): un re divide il suo regno tra i due figli, per ottenere tutto il potere il minore uccide il maggiore, la regina, che amava particolarmente il maggiore, uccide per vendetta il figlio rimasto, il popolo, inorridito da tanta crudeltà, insorge e uccide re e regina, alcuni nobili intervengono per riportare l'ordine, ovviamente facendo strage del popolo, il che scatena una guerra civile, che trasforma l'intero paese in un camposanto. La vendetta, come si vede, non è il nucleo narrativo di Gorboduc, ma l'andazzo emoglobinico è lo stesso, ed è lo stesso andazzo di uccisioni e decollazioni che ritroviamo anche nel mito nibelungico.
Un elemento ricorrente, anzi millenario, è quello che vede qualcuno uccidere i figli di qualcun altro per poi darglieli in pasto. Non solo c'è il precedente mitico di Tantalo (che cerca di far mangiare la carne dei propri figli agli dèi), ma quello di Atreo che uccide i figli del fratello Tieste e glieli serve a tavola (naturalmente, dopo il pasto gli mostra le teste dei bambini): i drammi greci sono andati perduti, ma non quelli latini di Seneca, che ci portano a Tito Andronico che fa un pasticcio coi figli di Zamora (onestamente, se lo meritavano): nel film Titus, di Julie Taymor, Anthony Hopkins mette in tavola quello che sembra l'ideale platonico del timballo alla teramana. Anche Gudrun (la Crimilde della versione norrena del racconto dei nibelunghi) uccide i figli, in odio al marito, e glieli serve arrosto (i teschi qui fanno da bicchieri). Infine, il mito di Procne e Filomela, narrato da Ovidio, è la radice primordiale del genere “rape and revenge” (vedi il franchise I Spit on Your Grave) e ingloba anche l'elemento della prole data in pasto al padre.
Fin qui, come si vede, la brutta fine del vendicatore è praticamente garantita, anche se messa in discussione (Amleto) o elevata a metafora consapevole (Moby Dick: “Tutti gli oggetti visibili, vedi, sono soltanto maschere di cartone, ma in ogni evento, nell’atto vivo, nell’azione indubitata, qualcosa di sconosciuto, ma sempre ragionevole, sporge le sue fattezze sotto la maschera bruta. E se l’uomo vuol colpire, colpisca sulla maschera!”). Ma non è detto che debba essere proprio così.

William-Adolphe Bouguereau - Il Rimorso di Oreste (1862)

Nello stesso Eschilo, il vendicatore riesce a scampare all'inevitabile redde rationem, anche se ci vuole l'intervento divino (deus ex machina) per scongiurarlo. Oreste uccide la madre Clitennestra e l'amante della madre Egisto per vendicare il padre Agamennone, e le Erinni cominciano a perseguitarlo (dopotutto, che diamine, ha ammazzato la madre!). Occorre una vera e propria rifondazione sociale e culturale (la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, come dire, dalla vendetta tribale si passa alla giustizia civile).
Un'altra curiosa eccezione (contemporanea alle tragedie di vendetta alla Kyd) è l'Ebreo di Malta (circa 1589) di Christopher Marlowe, esempio massimo dell'antisemitismo elisabettiano. Il protagonista, Barabba, agisce per vendicarsi, sì, ma il torto subito non è di sangue (non gli hanno ammazzato moglie e figli), ma finanziario: il governo di Malta, a corto di fondi, gli requisisce beni e abitazione, il che farebbe di Barabba una specie di eroe-martire neoliberista, o quasi. Barabba si vendica, ma, diciamo la verità, esagera un po'. Fa morire con l'inganno il figlio del governatore, ammazza la figlia che lo ha tradito (avvelenandola insieme a un intero convento di suore), ammazza qualche monaco e un paio di malfidati che vorrebbero ricattarlo, riesce a far cadere Malta in mano ai turchi, che lo nominano governatore, ma progetta di tradire anche loro, uccidendo il figlio dell'imperatore turco. Barabba strafà, ma non nutre nessuna pulsione autodistruttiva alla “muoia Sansone”, su di lui non aleggia nessuna nemesi. Se non fosse per il governatore (padre di una delle vittime ), che sabota i piani di Barabba facendolo finire nel calderone destinato ad altri, questo supercattivo finirebbe per scatenare uno tsunami per spazzare via l'intera Europa Meridionale!
Montecristo, come dicevamo, si allontana dallo schema della tragedia di vendetta. Non muore, anzi, ha la possibilità (e sottolineo possibilità) di essere di nuovo felice.
Quello che sembra dispiacere a molti (a partire da Eco) è invece proprio ciò che più distingue Montecristo da altre tragedie di vendetta: il motivo del lieto fine.
Come da copione, Montecristo eccede nella sua brama di vendetta, tanto da arrivare a dubitare delle proprie motivazioni (ero convinto di essere uno strumento della Provvidenza, non mi sarò ingannato?), ma anche quando supera tali dubbi, rinuncia comunque al tipo di vendetta (quella che non ha riguardo per i “danni collaterali”) che ha praticato fin lì. È questo che salva la vita a Danglars, che doveva essere l'ultima vittima di Montecristo. Questo ripensamento deriva, certo, dalla morte del piccolo Edouard (sociopatico in erba che invece il lettore non rimpiange affatto) e dalla sofferenza di Villefort (che lo stesso Montecristo trova iniquamente esagerata), ma dobbiamo ricordare che già in precedenza Montecristo aveva eccepito ai suoi elaborati piani di vendetta, quando era intervenuto per salvare la vita di Valentine (che la matrigna sta avvelenando), e lo aveva fatto per l'affetto nutrito nei confronti del giovane Morrel (innamorato di Valentine). Diventando Montecristo, Edmond Dantès non riesce (o non può) abbandonare del tutto la sua umanità, non può diventare un superuomo nietzschano, malgrado lo desideri e lo proclami (“E ora ... addio bontà, umanità, gratitudine… Addio a tutti i sentimenti che arricchiscono”).
Come il Nemo di Verne, Montecristo vive completamente al di fuori della società civile, e si è costituito, in un certo senso, come stato autonomo, sia pure clandestino. Egli è il sovrano assoluto di se stesso.

«Io? Conduco la vita più lieta che conosca, una vera vita da pascià! Sono il re del creato: mi sollazzo in un luogo, vi rimango; mi tedio, me ne parto. Sono libero come l’uccello, come lui ho le ali. Le genti che ho attorno mi ubbidiscono a un cenno. Di quando in quando mi diletto a sbeffeggiare la giustizia umana rubandole un bandito che cerca, un criminale che insegue. E poi ho la mia, di giustizia, bassa e alta, senza proroghe e senza appello, che condanna o che assolve, e con cui nessuno ha nulla da spartire. Ah, se voi aveste assaporato la mia vita non ne vorreste più altre, e mai rientrereste nel mondo a meno che non aveste un qualche progetto da realizzare».

Il Capitano Nemo in versione Takarazuka (fonte)

Tuttavia, non ha costruito, come Nemo, una vera e propria mini-nazione mobile (e autarchica) simile al Nautilus. Non ne ha bisogno perché la sua vendetta non è rivolta contro un'entità astratta (un impero coloniale), ma contro individui specifici. L'enorme ricchezza e la capacità di raccogliere informazioni sono solo mezzi per uno scopo. Per fare un esempio: Montecristo non ha bisogno di paradisi fiscali o di sistemi di riciclaggio, il suo patrimonio (in metalli e pietre preziose) lo tiene ben nascosto, e quando utilizza il sistema bancario lo fa solo per farne un'arma contro Danglars (o per beneficiare il vecchio Morrel).
All'inizio, Dantès è integrato nella società. Certo, nella sua veste di marinaio svolge un ruolo piuttosto “apolide”, che non comporta un percorso verso l'alto nella graduatoria del potere “metropolitano”, tuttavia non è né emarginato né disadattato o oppresso. Sta per diventare capitano, sta per mettere su famiglia, è un bravo lavoratore senza grilli per la testa (tanto meno politici). Il complotto contro di lui recide i suoi legami con la collettività. Tra prigionia e fuga, diventa Montecristo, sovrano di se stesso. Questa separazione, questo taglio netto, questa distanza totale, sono irrevocabili. Egli non riappare in Francia per conquistare una posizione di potere a scopo di vendetta, una posizione che lo “naturalizzi” nella scala gerarchica (come ha fatto il pescatore catalano Fernand), ma utilizza conoscenza e ricchezza per operare comunque da straniero, da “oggetto estraneo”.
Esaurito il suo ruolo di vendicatore provvidenziale, Montecristo ritorna a essere Edmond Dantès, ma non è il ragazzo di un tempo, il fidanzato di Mercedes, ma un Dantès rigenerato, che non cancella ma integra il suo alter ego: infatti, nella conclusiva lettera a Maximilien, si firma Edmond Dantès, Conte di Montecristo.
Questo è anche quello che distingue il Montecristo di Dumas dal Gully Foyle di Bester. La “rinascita” di Foyle è totale, integrale. È come la scimmia di Kafka: messo in una situazione senza via d'uscita, non ha altra possibilità di salvezza che farsi altro. La metamorfosi di Dantès, invece, non è né istantanea né totale, bensì metodica e premeditata. Montecristo non sostituisce Dantès, ma lo integra, con un salto di qualità hegeliano (o piuttosto kierkegaardiano).

Una volta terminata, nel bene o nel male, la sua missione vendicatrice, Montecristo offre a Mercédès il denaro risparmiato da Dantès il marinaio ventiquattro anni prima, moneta a corso legale, “interna” alla società civile. I suoi legami con la società non possono comunque essere riparati, ed è logico che nel finale lo si veda, di nuovo, allontanarsi da tutto e da tutti, ulteriormente separato e distante. Verso Oriente.
Tuttavia, proprio perché non è stato completamente disumano, Montecristo può tornare a essere Dantès, oggetto, e non protagonista, della sorte.
Per questo sbagliano, pur con tutte le buone ragioni, gli adattatori che, al termine della loro ri-narrazione, fanno ricongiungere Edmond col suo primo amore Mercédès. Quell'Edmond, ormai, non c'è più.
Quell'Edmond è morto nel Castello d'If.
C'è da dire che il lieto fine non riguarda il solo Montecristo, ma si manifesta nel destino di quattro coppie di personaggi: Edmond e Haydée, Maximilien e Valentine, Eugenie e Louise, e infine, in prospettiva, si prospetta un futuro consolatorio anche per Mercédès e Albert.

È proprio perché Montecristo non porta fino in fondo il suo processo di disumanizzazione (“Addio bontà...”) che uno dei cattivi, Danglars, alla fine se la cava (relativamente) con poco.
Egli è il maggiore responsabile delle sventure di Dantes, dato che Fernand, all'epoca, avrebbe solamente cercato di ammazzare il suo rivale in amore, e Villefort non avrebbe avuto nessun motivo di intervenire (Caderousse non conta); è anche quello meno tormentato moralmente (la perdita di moglie e figlia lo lasciano pressoché indifferente), ma ha la fortuna di ritrovarsi ultimo della lista, e Montecristo, dopo aver un pochino esagerato con la famiglia Villefort, non se la sente di infierire.
Ma c'è di più. Benedetto, come strumento nelle mani di Montecristo, sembra diretto più contro Villefort che contro Danglars, che viene solo “tormentato” dalla vana speranza di risollevarsi finanziariamente coi milioni fittizi di Andrea Cavalcanti. Montecristo avrebbe potuto ritardare lo sputtanamento pubblico (e penale) di Andrea-Benedetto, e in questo caso Danglars si sarebbe ritrovato con la figlia incestuosamente maritata col fratellastro, a sua volta totalmente squattrinato, nonché evaso e assassino latitante. Ma Montecristo sputtana Benedetto prima che il suo fidanzamento con Eugenie Danglars venga ufficializzato, e aiuta la ragazza a realizzare il suo sogno di artista gay. Anche da questo punto di vista, il peggio capita a Villefort.
Anche considerando i suoi motivi nel condannare Dantès a una sorte atroce, il procuratore sembra meno colpevole (anche se non di molto) degli altri due cospiratori: in fondo agisce per proteggere l'onore famigliare più che se stesso, mentre Danglars e Fernand vedono (con odio) in Dantès l'ostacolo ai loro progetti personali. Tuttavia, c'è un peccato, un'hamartia che moltiplica la sofferenza finale di Villefort: se avesse fatto il suo dovere di magistrato dinanzi alla richiesta di giustizia di Bertuccio, Bertuccio non l'avrebbe seguito fino ad Auteuil, non avrebbe rianimato Benedetto, il quale non avrebbe intrapreso una carriera da criminale, culminata nel disonore pubblico di Villefort. Del resto, il veneficio in casa sua sarebbe stato punizione sufficiente per misfatti ben peggiori...
Lo ripetiamo: Danglars, il principale responsabile delle sventure di Dantès, se la cava con poco, con un gran spavento sì, ma con ancora qualche soldo in tasca, mentre Villefort alla fine è letteralmente distrutto, demolito, annientato.


Incidentalmente: la “migrazione” dalla vendetta autodistruttiva al lieto fine alla Montecristo si mostra in maniera esemplare nella trilogia filmica (detta “della vendetta”) di Park Chan-wook. Nei primi due film (Mr.Vendetta e Old Boy) la vendetta distrugge il vendicatore, mentre nell'ultimo (Lady Vendetta) la vendicatrice redistribuisce la rivalsa tra un'intera comunità di vittime: il vendicatore abdica al suo ruolo di esecutore esclusivo di una giustizia sovralegale, e trasformando la sua vendetta da individuale in collettiva, ottiene un'ulteriore possibilità di vita e, come in Montecristo, di felicità.
Montecristo, però, non può redistribuire l'onere della vendetta, che per lui è esclusivamente personale.
Su questo tema, torneremo.

Su Montecristo, un primo e un secondo post. E un quarto. E un quinto.

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