di Domenico D'Amico
Il
Conte di Montecristo, oggi, può essere considerato il prototipo
della moderna storia di vendetta. Alcuni dei suoi motivi narrativi
portanti (la rivalsa consumata a freddo, quasi sempre sproporzionata,
e un “lieto fine” per il vendicatore) sono stati riutilizzati in
innumerevoli narrazioni contemporanee (sia sulla pagina sia sullo
schermo).
Tuttavia
non bisogna trascurare il fatto che il romanzo di Dumas sia una sorta
di passaggio (o di migrazione) da una concezione classica della
vendetta a una, ripetiamo, moderna (non ci occuperemo, qui, delle
variazioni postmoderne alla Dürrenmat, o “pessimistiche” alla
Memento,
Mystic River
e Big Bad Wolves,
in cui la vendetta colpisce le persone sbagliate, o di variazioni
metanarrative alla Inigo
Montoya).
La
concezione classica della vendetta ha le sue radici, ovviamente,
nella tragedia attica (prototipo, l'Orestea di Eschilo), ma la
struttura narrativa di base, tutt'ora corrente (anche oggi ci sono
vendicatori che si “bruciano” nel concludere l'impresa), è
quella che i drammaturghi inglesi (prima e dopo Shakespeare), per
tramite di Seneca, hanno portato alla perfezione: la tragedia di
vendetta (revenge
tragedy).
Il
modello cinque-secentesco della tragedia di vendetta prescrive che il
vendicatore (o vendicatrice), nel portare a termine il proprio
progetto di rivalsa, giunga a un eccesso talmente estremo (di
crudeltà o di indifferenza verso eventuali vittime collaterali) da
letteralmente consumare la propria umanità. Esito obbligato, la
morte. È quello che succede nella Tragedia Spagnola di
Thomas Kyd e nel Tito Andronico di Shakespeare (ma anche a
Sweeney
Todd), opere, da questo punto di vista, esemplari: efferata
violenza, sangue a fiumi e cumuli di cadaveri.
Era
la fascinazione degli autori britannici per l'aspetto sanguinario
delle tragedie di Seneca a ispirare questo grand guignol, come si
vede nel prototipo Gorboduc
(che è del 1561): un re
divide il suo regno tra i due figli, per ottenere tutto il potere il
minore uccide il maggiore, la regina, che amava particolarmente il
maggiore, uccide per vendetta il figlio rimasto, il popolo,
inorridito da tanta crudeltà, insorge e uccide re e regina, alcuni
nobili intervengono per riportare l'ordine, ovviamente facendo strage
del popolo, il che scatena una guerra civile, che trasforma l'intero
paese in un camposanto. La vendetta, come si vede, non è il nucleo
narrativo di Gorboduc, ma l'andazzo emoglobinico è lo stesso, ed
è lo stesso andazzo di uccisioni e decollazioni che ritroviamo anche
nel mito
nibelungico.
Un
elemento ricorrente, anzi millenario, è quello che vede qualcuno
uccidere i figli di qualcun altro per poi darglieli in pasto. Non
solo c'è il precedente mitico di Tantalo (che cerca di far mangiare
la carne dei propri figli agli dèi), ma quello di Atreo che uccide i
figli del fratello Tieste e glieli serve a tavola (naturalmente, dopo
il pasto gli mostra le teste dei bambini): i drammi greci sono andati
perduti, ma non quelli latini di Seneca, che ci portano a Tito
Andronico che fa un pasticcio coi figli di Zamora (onestamente, se lo
meritavano): nel film Titus, di Julie Taymor, Anthony Hopkins
mette in tavola quello che sembra l'ideale platonico del timballo alla
teramana. Anche
Gudrun (la
Crimilde della versione norrena del racconto dei nibelunghi) uccide i
figli, in odio al marito, e glieli serve arrosto (i teschi qui fanno
da bicchieri). Infine,
il mito di Procne e
Filomela, narrato da Ovidio,
è la radice primordiale del genere “rape and revenge” (vedi il
franchise I
Spit on Your Grave) e ingloba anche l'elemento della prole
data in pasto al padre.
Fin
qui, come si vede, la brutta fine del vendicatore è praticamente
garantita, anche se messa in discussione (Amleto) o elevata a
metafora consapevole (Moby Dick: “Tutti
gli oggetti visibili, vedi, sono soltanto maschere di cartone, ma in
ogni evento, nell’atto vivo, nell’azione indubitata, qualcosa di
sconosciuto, ma sempre ragionevole, sporge le sue fattezze sotto la
maschera bruta. E se l’uomo vuol colpire, colpisca sulla
maschera!”). Ma non è detto che debba essere proprio così.
William-Adolphe Bouguereau - Il Rimorso di Oreste (1862)
Nello
stesso Eschilo, il vendicatore riesce a scampare all'inevitabile
redde rationem, anche se ci vuole l'intervento divino (deus ex
machina) per scongiurarlo. Oreste uccide la madre Clitennestra e
l'amante della madre Egisto per vendicare il padre Agamennone, e le
Erinni cominciano a perseguitarlo (dopotutto, che diamine, ha
ammazzato la madre!). Occorre una vera e propria rifondazione sociale
e culturale (la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, come dire,
dalla vendetta tribale si passa alla giustizia civile).
Un'altra
curiosa eccezione (contemporanea alle tragedie di vendetta alla Kyd)
è l'Ebreo di Malta (circa 1589) di Christopher Marlowe,
esempio massimo dell'antisemitismo elisabettiano. Il protagonista,
Barabba, agisce per vendicarsi, sì, ma il torto subito non è di
sangue (non gli hanno ammazzato moglie e figli), ma finanziario: il
governo di Malta, a corto di fondi, gli requisisce beni e abitazione,
il che farebbe di Barabba una specie di eroe-martire neoliberista, o
quasi. Barabba si vendica, ma, diciamo la verità, esagera un po'. Fa
morire con l'inganno il figlio del governatore, ammazza la figlia che
lo ha tradito (avvelenandola insieme a un intero convento di suore),
ammazza qualche monaco e un paio di malfidati che vorrebbero
ricattarlo, riesce a far cadere Malta in mano ai turchi, che lo
nominano governatore, ma progetta di tradire anche loro, uccidendo il
figlio dell'imperatore turco. Barabba strafà, ma non nutre nessuna
pulsione autodistruttiva alla “muoia Sansone”, su di lui non
aleggia nessuna nemesi. Se non fosse per il governatore (padre di una
delle vittime ), che sabota i piani di Barabba facendolo finire nel
calderone destinato ad altri, questo supercattivo finirebbe per
scatenare uno tsunami per spazzare via l'intera Europa Meridionale!
Montecristo,
come dicevamo, si allontana dallo schema della tragedia di vendetta.
Non muore, anzi, ha la possibilità (e sottolineo possibilità)
di essere di nuovo felice.
Quello
che sembra dispiacere a molti (a partire da Eco) è invece proprio
ciò che più distingue Montecristo da altre tragedie di
vendetta: il motivo del lieto fine.
Come
da copione, Montecristo eccede
nella sua brama di vendetta, tanto da arrivare a dubitare delle
proprie motivazioni (ero convinto di essere uno strumento della
Provvidenza, non mi sarò ingannato?), ma anche quando supera tali
dubbi, rinuncia comunque al tipo di vendetta (quella che non ha
riguardo per i “danni collaterali”) che ha praticato fin lì. È
questo che salva la vita a Danglars, che doveva essere l'ultima
vittima di Montecristo. Questo ripensamento deriva, certo, dalla
morte del piccolo Edouard (sociopatico in erba che invece il lettore
non rimpiange affatto) e dalla sofferenza di Villefort (che lo stesso
Montecristo trova iniquamente esagerata), ma dobbiamo ricordare che
già in precedenza Montecristo aveva eccepito ai suoi elaborati piani
di vendetta, quando era intervenuto per salvare la vita di Valentine
(che la matrigna sta avvelenando), e lo aveva fatto per l'affetto
nutrito nei confronti del giovane Morrel (innamorato di Valentine).
Diventando Montecristo, Edmond Dantès non riesce (o non può)
abbandonare del tutto la sua umanità, non può diventare un
superuomo nietzschano, malgrado lo desideri e lo proclami (“E ora
... addio bontà, umanità, gratitudine… Addio a tutti i sentimenti
che arricchiscono”).
Come
il Nemo di Verne, Montecristo vive completamente al di fuori della
società civile, e si è costituito, in un certo senso, come stato
autonomo, sia pure clandestino. Egli è il sovrano assoluto di se
stesso.
«Io?
Conduco la vita più lieta che conosca, una vera vita da pascià!
Sono il re del creato: mi sollazzo in un luogo, vi rimango; mi tedio,
me ne parto. Sono libero come l’uccello, come lui ho le ali. Le
genti che ho attorno mi ubbidiscono a un cenno. Di quando in quando
mi diletto a sbeffeggiare la giustizia umana rubandole un bandito che
cerca, un criminale che insegue. E poi ho la mia, di giustizia, bassa
e alta, senza proroghe e senza appello, che condanna o che assolve, e
con cui nessuno ha nulla da spartire. Ah, se voi aveste assaporato la
mia vita non ne vorreste più altre, e mai rientrereste nel mondo a
meno che non aveste un qualche progetto da realizzare».
Il Capitano Nemo in versione Takarazuka (fonte)
Tuttavia,
non ha costruito, come Nemo, una vera e propria mini-nazione mobile
(e autarchica) simile al Nautilus. Non ne ha bisogno perché la sua
vendetta non è rivolta contro un'entità astratta (un impero
coloniale), ma contro individui specifici. L'enorme ricchezza e la
capacità di raccogliere informazioni sono solo mezzi per uno scopo.
Per fare un esempio: Montecristo non ha bisogno di paradisi fiscali o
di sistemi di riciclaggio, il suo patrimonio (in metalli e pietre
preziose) lo tiene ben nascosto, e quando utilizza il sistema
bancario lo fa solo per farne un'arma contro Danglars (o per
beneficiare il vecchio Morrel).
All'inizio,
Dantès è integrato nella società. Certo, nella sua veste di
marinaio svolge un ruolo piuttosto “apolide”, che non comporta un
percorso verso l'alto nella graduatoria del potere “metropolitano”,
tuttavia non è né emarginato né disadattato o oppresso. Sta per
diventare capitano, sta per mettere su famiglia, è un bravo
lavoratore senza grilli per la testa (tanto meno politici). Il
complotto contro di lui recide i suoi legami con la collettività.
Tra prigionia e fuga, diventa Montecristo, sovrano di se stesso.
Questa separazione, questo taglio netto, questa distanza totale, sono
irrevocabili. Egli non riappare in Francia per conquistare una
posizione di potere a scopo di vendetta, una posizione che lo
“naturalizzi” nella scala gerarchica (come ha fatto il pescatore
catalano Fernand), ma utilizza conoscenza e ricchezza per operare
comunque da straniero, da “oggetto estraneo”.
Esaurito
il suo ruolo di vendicatore provvidenziale, Montecristo ritorna a
essere Edmond Dantès, ma non è il ragazzo di un tempo, il fidanzato
di Mercedes, ma un Dantès rigenerato, che non cancella ma integra il
suo alter ego: infatti, nella conclusiva lettera a Maximilien, si
firma Edmond Dantès, Conte di Montecristo.
Questo
è anche quello che distingue il Montecristo di Dumas dal Gully
Foyle di Bester. La “rinascita” di Foyle è totale,
integrale. È come la
scimmia di Kafka: messo in una situazione senza via d'uscita, non
ha altra possibilità di salvezza che farsi altro. La
metamorfosi di Dantès, invece, non è né istantanea né totale,
bensì metodica e premeditata. Montecristo non sostituisce Dantès,
ma lo integra, con un salto di qualità hegeliano (o piuttosto
kierkegaardiano).
Una
volta terminata, nel bene o nel male, la sua missione vendicatrice,
Montecristo offre a Mercédès il denaro risparmiato da Dantès il
marinaio ventiquattro anni prima, moneta a corso legale, “interna”
alla società civile. I suoi legami con la società non possono
comunque essere riparati, ed è logico che nel finale lo si veda, di
nuovo, allontanarsi da tutto e da tutti, ulteriormente separato e
distante. Verso Oriente.
Tuttavia,
proprio perché non è stato completamente disumano,
Montecristo può tornare a essere Dantès, oggetto, e non
protagonista, della sorte.
Per
questo sbagliano, pur con tutte le buone ragioni, gli adattatori che,
al termine della loro ri-narrazione, fanno ricongiungere Edmond col
suo primo amore Mercédès. Quell'Edmond, ormai, non c'è più.
Quell'Edmond
è morto nel Castello d'If.
C'è
da dire che il lieto fine non riguarda il solo Montecristo, ma si
manifesta nel destino di quattro coppie di personaggi: Edmond e
Haydée, Maximilien e Valentine, Eugenie e Louise, e infine, in
prospettiva, si prospetta un futuro consolatorio anche per Mercédès
e Albert.
È
proprio perché Montecristo non porta fino in fondo il suo processo
di disumanizzazione (“Addio bontà...”) che uno dei cattivi,
Danglars, alla fine se la cava (relativamente) con poco.
Egli
è il maggiore responsabile delle sventure di Dantes, dato che
Fernand, all'epoca, avrebbe solamente cercato di ammazzare il suo
rivale in amore, e Villefort non avrebbe avuto nessun motivo di
intervenire (Caderousse non conta); è anche quello meno tormentato
moralmente (la perdita di moglie e figlia lo lasciano pressoché
indifferente), ma ha la fortuna di ritrovarsi ultimo della lista, e
Montecristo, dopo aver un pochino esagerato con la famiglia
Villefort, non se la sente di infierire.
Ma
c'è di più. Benedetto, come strumento nelle mani di Montecristo,
sembra diretto più contro Villefort che contro Danglars, che viene
solo “tormentato” dalla vana speranza di risollevarsi
finanziariamente coi milioni fittizi di Andrea Cavalcanti.
Montecristo avrebbe potuto ritardare lo sputtanamento pubblico (e
penale) di Andrea-Benedetto, e in questo caso Danglars si sarebbe
ritrovato con la figlia incestuosamente maritata col fratellastro, a
sua volta totalmente squattrinato, nonché evaso e assassino
latitante. Ma Montecristo sputtana Benedetto prima che il suo
fidanzamento con Eugenie Danglars venga ufficializzato, e aiuta la
ragazza a realizzare il suo sogno di artista gay. Anche da questo
punto di vista, il peggio capita a Villefort.
Anche
considerando i suoi motivi nel condannare Dantès a una sorte atroce,
il procuratore sembra meno colpevole (anche se non di molto) degli
altri due cospiratori: in fondo agisce per proteggere l'onore
famigliare più che se stesso, mentre Danglars e Fernand vedono (con
odio) in Dantès l'ostacolo ai loro progetti personali. Tuttavia, c'è
un peccato, un'hamartia che moltiplica la sofferenza finale di
Villefort: se avesse fatto il suo dovere di magistrato dinanzi alla
richiesta di giustizia di Bertuccio, Bertuccio non l'avrebbe seguito
fino ad Auteuil, non avrebbe rianimato Benedetto, il quale non
avrebbe intrapreso una carriera da criminale, culminata nel disonore
pubblico di Villefort. Del resto, il veneficio in casa sua sarebbe
stato punizione sufficiente per misfatti ben peggiori...
Lo
ripetiamo: Danglars, il principale responsabile delle sventure di
Dantès, se la cava con poco, con un gran spavento sì, ma con ancora
qualche soldo in tasca, mentre Villefort alla fine è letteralmente
distrutto, demolito, annientato.
Incidentalmente:
la “migrazione” dalla vendetta autodistruttiva al lieto fine alla
Montecristo si mostra in maniera esemplare nella trilogia filmica
(detta “della vendetta”) di Park Chan-wook. Nei primi due film
(Mr.Vendetta e Old Boy) la vendetta distrugge il
vendicatore, mentre nell'ultimo (Lady Vendetta) la
vendicatrice redistribuisce la rivalsa tra un'intera comunità di
vittime: il vendicatore abdica al suo ruolo di esecutore esclusivo di
una giustizia sovralegale, e trasformando la sua vendetta da
individuale in collettiva, ottiene un'ulteriore possibilità di vita
e, come in Montecristo, di felicità.
Montecristo,
però, non può redistribuire l'onere della vendetta, che per
lui è esclusivamente personale.
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