di Domenico D'Amico
Abbiamo
già osservato come il “lieto fine” della vicenda di Edmond
Dantès/Montecristo, nel contesto della tragedia di vendetta, sia una
novità, per quanto non assoluta.
Questo
non vuol dire che i narratori si siano dimenticati del meccanismo
(fondamentalmente tragico) che porta a volte il vendicatore a
decostruire la propria umanità, e a votarsi quindi
all'autodistruzione. L'eroe, vendicandosi, si separa dal contesto
della “società civile”, e non può più tornare indietro. Un
esempio è il film danese Darkland
(Underverden, 2017) in cui il protagonista, una volta
vendicata la morte del fratello, si rende conto che tra lui e la sua
esistenza precedente (una buona carriera, una moglie amata, un figlio
in arrivo) ormai c'è una barriera invalicabile, quasi tangibile. La
distruzione finale arriva anche in storie come Giustizia
Privata (Law Abiding Citizen, 2009), Death
Sentence (Id., 2007) o Blue
Ruin (Id., 2013). Insomma, Montecristo non ha di botto
trasformato il sentiero della vendetta in un letto di rose.
Ma
se pensate che la fatale rovina del vendicatore sia deprimente
(rispetto a quanto vi facciano gongolare Charles Bronson e Denzel
Washington), siete in errore. C'è di peggio.
C'è
la vendetta istituzionale, quella sanzionata
dal potere (statale o meno), che la modernità presume di aver
superato. Tra parentesi, quando Dumas accenna alla tradizione della
vendetta corsa non traccia la minima connessione con le azioni di
Montecristo, anzi, quel genere di omicidi viene descritto come una
specie di delitto minore, in quanto l'omicida obbedisce alla
pressione sociale, non a un interesse o istinto puramente personale,
il che, in un certo senso, lo deresponsabilizza:
«Eh, Dio mio – ribatté Gaetano – non è loro colpa se sono banditi, è dell’autorità».«Come sarebbe?».«Certamente. Vengono perseguitati per aver fatto la pelle a qualcuno, nient’altro. Come se non fosse nella natura del còrso vendicarsi!».«Che intendete con “aver fatto la pelle a qualcuno”? Aver assassinato un uomo?», chiese Franz proseguendo con le sue indagini.«Intendo aver ucciso un nemico – ribatté il padrone – la qual cosa è ben diversa».
Nella
realtà, la vendetta istituzionalizzata è qualcosa di terribilmente
insensato, come si può leggere in Aprile Spezzato, romanzo di
Ismail Kadare. L'infinita catena di omicidi e contro-omicidi
richiesti dalla tradizione
(la storia si svolge nel nord dell'Albania) non ha nulla di caotico o
“selvaggio”, tutto è meticolosamente regolato (ad esempio, per
l'omicida del momento è previsto un periodo di immunità di trenta
giorni), e la faida non implica nessun senso né morale né
affettivo, è una vera e propria industria che si autoalimenta: il
vecchio saggio che viene interpellato a un certo punto della
narrazione potrebbe porre fine a una delle faide in corso, e potrebbe
farlo senza alcuna conseguenza. Ma si rifiuta, le uccisioni devono
continuare.
Siamo
lontani dalla “vendetta corsa” di un Bertuccio dumasiano: qui la
vendetta è puro meccanismo, pura contabilità di una merce (in
fondo) inesistente. Un titolo spazzatura.
Ma
se la faida può lasciare l'amaro in bocca, cosa succede se ci si
vendica sulla persona sbagliata? Esempio limite, Irréversible
(ma Gaspar Noé, si sa, ama punire il suo pubblico, per puro
sadismo), o, se si vuole, Mystic
River. Ma se davvero volete male a qualcuno, costringetelo a
leggere Nel Nome di Mia Figlia, romanzo di Louise Doughty
(Whatever You Love, 2010). Una donna perde la sua bambina per
colpa di un pirata della strada, e non demorde finché non riesce a
identificarlo. Sembra la premessa di un avvincente dramma di
vendetta, no? No. La protagonista prima scopa con l'assassino della
figlia, poi gli impone di ammazzare la nuova moglie dell'ex marito,
perché la sospetta di averle spedito lettere anonime molto crudeli.
Una volta che la poveraccia scompare, si scopre che era del tutto
innocente. Fine della storia. Come direbbero gli anglosassoni:
uplifting.
C'è
tuttavia un elemento comune a tutti i generi di vendetta, anche
quelli più sfortunati e insensati: a un certo punto la vendetta
viene consumata, bene o male si è giunti a una conclusione, anche se
tragica o insoddisfacente o ingiusta...
Ma
che succede se avete subito un torto terribile e non potete
vendicarvi perché siete morti? No, non potete tornare dall'aldilà
come Eric
Draven.
O
chissà, siete all'Inferno e avete la fortuna di ritrovarvi tra le
mani proprio chi vi ha arrecato quell'indicibile torto. Fortuna? Non
proprio.
Alberto Martini - Il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggeri, 1943
Il
conte Ugolino della Gherardesca (Inferno, XXXIII, 1-78) si
vendica dell'arcivescovo Ruggeri, sì, ma la sua è una vendetta
sterile, una vendetta che non sarà mai compiuta, che resterà
eternamente in atto, fissata nel ghiaccio del Cocito,
nel gusto insensato del cranio che addenta, una vendetta che gli farà
anche rivivere in perpetuo l'orrore dei suoi ultimi giorni di vita,
suoi e dei suoi figli. Figli che non vedrà più, per l'eternità.
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