di Domenico D'Amico
(il titolo è scherzoso)
(il titolo è scherzoso)
se voler fu o destino o fortuna,
non so.
(Inferno, XXXII 76-77)
non so.
(Inferno, XXXII 76-77)
«Non bisogna mai parlare di destino,
figlio mio, ma sempre di Provvidenza.»
(Stendhal, Il Rosso e il Nero)
(Stendhal, Il Rosso e il Nero)
Ogni parola (o termine, o concetto)
domina un'area sfumata, mutevole, in continua interazione con altri
territori verbali, generando variazioni di confine, sovrapposizioni,
collisioni, fusioni, o (perché no) decadimenti e distruzioni totali.
Non fa eccezione il concetto di coincidenza.
Secondo Laurence Browne (The Many Faces of Coincidence, Imprint Academic 2017) ci sono quattro categorie di coincidenza: la pura casualità (attinente al calcolo delle probabilità); la causalità naturale (una coincidenza che però non evade il campo della fattualità fisica e mentale); la causalità sovrannaturale (qui possiamo affastellare sia il paranormale sia il provvidenziale); e infine la sincronicità junghiana.
Quest'ultima (e teorie simili al seguito) non è che una variante eclettica e arzigogolata della pathetic fallacy: attribuire sentimenti umani a oggetti inanimati (o naturali in genere) può essere molto gratificante, in quanto allevia una (umanissima) sensazione di impotenza, ma comunque (se trasportato dalla finzione narrativa e poetica alla realtà) erroneo.
Con buona pace di Jung et alii, il pensiero umano non ha la minima influenza sulla realtà materiale, che non è nemmeno lontanamente un “costrutto sociale”. Trovo letteralmente patetico il famoso aneddoto dello scarabeo: toh, uno scarabeo, è da non credersi!
Quanto aveva ragione Aristotele a denunciare la natura totalmente accidentale dei sogni cosiddetti “profetici”: “Dal momento che essi sono soggetti a stimoli numerosi e di ogni sorta, riescono ad avere casualmente visioni simili agli eventi e indovinano in questo come chi gioca a pari e dispari, perché anche a questo proposito si dice: 'A furia di tirare, una volta o l’altra ce la farai': lo stesso succede qui.” (Parva Naturalia 463b).
Trovo inoltre bizzarro che, mentre è comunemente accettato il fatto che vedere una forma intellegibile in una nuvola (o in una macchia sul muro o in una patata bitorzoluta) costituisca un “errore” (paraeidolia), lo stesso non accada per le coincidenze “miracolose” (apofenia).
Tornando alla sincronicità, si tratta, stringi stringi, del banalissimo appello all'incredulità: non ci posso credere che l'occhio umano sia frutto dell'evoluzione, quindi esiste un qualche Progettista.
Non è curioso come questi concetti siano in definitiva sintomo di una mancanza di immaginazione?
Non fa eccezione il concetto di coincidenza.
Secondo Laurence Browne (The Many Faces of Coincidence, Imprint Academic 2017) ci sono quattro categorie di coincidenza: la pura casualità (attinente al calcolo delle probabilità); la causalità naturale (una coincidenza che però non evade il campo della fattualità fisica e mentale); la causalità sovrannaturale (qui possiamo affastellare sia il paranormale sia il provvidenziale); e infine la sincronicità junghiana.
Quest'ultima (e teorie simili al seguito) non è che una variante eclettica e arzigogolata della pathetic fallacy: attribuire sentimenti umani a oggetti inanimati (o naturali in genere) può essere molto gratificante, in quanto allevia una (umanissima) sensazione di impotenza, ma comunque (se trasportato dalla finzione narrativa e poetica alla realtà) erroneo.
Con buona pace di Jung et alii, il pensiero umano non ha la minima influenza sulla realtà materiale, che non è nemmeno lontanamente un “costrutto sociale”. Trovo letteralmente patetico il famoso aneddoto dello scarabeo: toh, uno scarabeo, è da non credersi!
Quanto aveva ragione Aristotele a denunciare la natura totalmente accidentale dei sogni cosiddetti “profetici”: “Dal momento che essi sono soggetti a stimoli numerosi e di ogni sorta, riescono ad avere casualmente visioni simili agli eventi e indovinano in questo come chi gioca a pari e dispari, perché anche a questo proposito si dice: 'A furia di tirare, una volta o l’altra ce la farai': lo stesso succede qui.” (Parva Naturalia 463b).
Trovo inoltre bizzarro che, mentre è comunemente accettato il fatto che vedere una forma intellegibile in una nuvola (o in una macchia sul muro o in una patata bitorzoluta) costituisca un “errore” (paraeidolia), lo stesso non accada per le coincidenze “miracolose” (apofenia).
Tornando alla sincronicità, si tratta, stringi stringi, del banalissimo appello all'incredulità: non ci posso credere che l'occhio umano sia frutto dell'evoluzione, quindi esiste un qualche Progettista.
Non è curioso come questi concetti siano in definitiva sintomo di una mancanza di immaginazione?
È un paradosso, lo so, che la tendenza umana a scorgere schemi intellegibili negli eventi (tendenza che ci permette di sopravvivere, non dimentichiamolo) possa, in certi casi, ostacolare la nostra visione del reale.
David J. Hand ha un bel ricordarci che
anche le più clamorose coincidenze non hanno nulla di miracoloso
(David J. Hand, The Improbability Principle, Farrar, Straus &
Giroux, New York 2015): la statistica e il calcolo delle probabilità
non fanno per nulla parte del nostro senso comune, e una guardia
forestale che viene colpita sette volte da un fulmine ci farà sempre
una certa impressione.
Ad ogni modo, dato che il nostro
interesse principale riguarda il genere romanzo (in particolare
quello ottocentesco), simili categorizzazioni non ci sono di grande
utilità, in quanto c'è una differenza fondamentale tra le
coincidenze della vita reale e quelle di cui leggiamo in un testo
letterario.
Ne abbiamo già parlato.
Concetti come la sincronicità junghiana hanno un valore solo metaforico, in quanto si riferiscono (anche se illusoriamente) alla realtà fisica, non a quella della finzione letteraria (del resto, come ci dimostra il “Paradosso del Compleanno” o la Legge di Littlewood, il metro di giudizio utilizzato per definire un evento, o una concatenazione di eventi, come improbabili o uncanny, è talmente soggettivo e aleatorio da essere privo di significato: un evento può essere considerato improbabile solo prima che accada), e lo stesso si può dire di concetti come “fato” o “provvidenza”: la provvidenza dei teologi e della religiosità (o superstizione) popolare può essere analoga, o accostabile, o strutturalmente simile (isomorfismo) alla “provvidenza” che troviamo in Manzoni o Dumas, ma si tratta di cose essenzialmente diverse.
Il personaggio di un romanzo può dirci parecchie cose sugli esseri umani reali, ma non è un individuo reale (anche se per Dostoevskij verrebbe da dire altrimenti).
Per chiarire: se un insieme di circostanze insolitamente convergenti salva degli innocenti dai progetti nefasti di un malvagio, siamo liberi di attribuire la cosa al caso, oppure (potremmo essere profondamente religiosi) vederci l'intervento divino; se nei Promessi Sposi un insieme di circostanze (il ravvedimento dell'Innominato, l'epidemia di peste, eccetera) portano al lieto fine per Renzo e Lucia, l'intervento della Provvidenza non è una nostra opzione interpretativa, ma una realtà all'interno della finzione narrativa.
Chiunque nel mondo reale morisse al modo dei personaggi del ciclo di Final Destination, lo vedremmo come una persona estremamente sfortunata, ma all'interno della finzione cinematografica c'è la Morte, che è una figura intenzionale, teistica, o quantomeno, forse, un fenomeno naturale, inevitabile come l'attrazione gravitazionale.
Non dimentichiamo, tuttavia, che l'ordine, il senso che gli esseri umani tendono a leggere negli eventi reali, e l'ordine che le narrazioni presuppongono, hanno la stessa radice (probabilmente evoluzionistica); come dice George Steiner nel suo Tolstoj o Dostoevskij: “L'opera d'arte racchiude le mitologie del pensiero, gli eroici sforzi dello spirito umano di imporre un ordine e uno schema interpretativo al caos dell'esperienza”.
Ne abbiamo già parlato.
Concetti come la sincronicità junghiana hanno un valore solo metaforico, in quanto si riferiscono (anche se illusoriamente) alla realtà fisica, non a quella della finzione letteraria (del resto, come ci dimostra il “Paradosso del Compleanno” o la Legge di Littlewood, il metro di giudizio utilizzato per definire un evento, o una concatenazione di eventi, come improbabili o uncanny, è talmente soggettivo e aleatorio da essere privo di significato: un evento può essere considerato improbabile solo prima che accada), e lo stesso si può dire di concetti come “fato” o “provvidenza”: la provvidenza dei teologi e della religiosità (o superstizione) popolare può essere analoga, o accostabile, o strutturalmente simile (isomorfismo) alla “provvidenza” che troviamo in Manzoni o Dumas, ma si tratta di cose essenzialmente diverse.
Il personaggio di un romanzo può dirci parecchie cose sugli esseri umani reali, ma non è un individuo reale (anche se per Dostoevskij verrebbe da dire altrimenti).
Per chiarire: se un insieme di circostanze insolitamente convergenti salva degli innocenti dai progetti nefasti di un malvagio, siamo liberi di attribuire la cosa al caso, oppure (potremmo essere profondamente religiosi) vederci l'intervento divino; se nei Promessi Sposi un insieme di circostanze (il ravvedimento dell'Innominato, l'epidemia di peste, eccetera) portano al lieto fine per Renzo e Lucia, l'intervento della Provvidenza non è una nostra opzione interpretativa, ma una realtà all'interno della finzione narrativa.
Chiunque nel mondo reale morisse al modo dei personaggi del ciclo di Final Destination, lo vedremmo come una persona estremamente sfortunata, ma all'interno della finzione cinematografica c'è la Morte, che è una figura intenzionale, teistica, o quantomeno, forse, un fenomeno naturale, inevitabile come l'attrazione gravitazionale.
Non dimentichiamo, tuttavia, che l'ordine, il senso che gli esseri umani tendono a leggere negli eventi reali, e l'ordine che le narrazioni presuppongono, hanno la stessa radice (probabilmente evoluzionistica); come dice George Steiner nel suo Tolstoj o Dostoevskij: “L'opera d'arte racchiude le mitologie del pensiero, gli eroici sforzi dello spirito umano di imporre un ordine e uno schema interpretativo al caos dell'esperienza”.
Purtroppo, se il concetto di
coincidenza è elusivo nella realtà della vita, non gode di un
profilo molto più definito in letteratura.
Un utilissimo saggio (Hilary P. Dannenberg, A Poetics of Coincidence in Narrative Fiction, Poetics Today vol.25 issue 3, Duke University Press 2004) ci informa che di definizioni di coincidenza (in letteratura) ce n'è una per critico. Non c'è da meravigliarsi.
La coincidenza per antonomasia, che si estende dall'antichità classica alla contemporanea industria dello spettacolo, è quella dell'accoppiata agnizione-ricongiungimento dei congiunti.
L'esempio base è quello di Edipo: una serie di coincidenze lo porta, alla fine, alla scoperta della sua vera identità (e di conseguenza alla consapevolezza degli “errori” che ha commesso: uccidere il padre, giacere con la madre), ma nello stesso tempo si può dire, cinicamente, che egli si sia ricongiunto coi suoi congiunti. All'interno della narrazione, le coincidenze sono inevitabili, dettate da un fato cui non si può sfuggire, eppure contemporaneamente determinate da un “peccato” del protagonista.
Una forma più benigna di agnizione è quella che rivela come una trovatella (o trovatello) sia in realtà di sangue reale, da cui lieto fine con nozze (spesso collettive) senza le tragiche conseguenze edipiche (ad esempio nel Racconto d'Inverno di Shakespeare).
Un tipo di disvelamento quasi metaletterario è quello praticato dal protagonista del Conte di Montecristo, che maneggia l'agnizione come una mazza ferrata: “Edmond Dantes!”
Va da sé, tuttavia, che non sempre un'agnizione risulta intimamente legata a una o più coincidenze. Che Pip (in Grandi Speranze di Charles Dickens) e Jerusha (in Papà Gambalunga di Jean Webster) scoprano con sorpresa l'identità dei loro benefattori non implica granché di coincidentale (a prescindere dal massiccio uso delle coincidenze nel romanzo dickensiano).
“Luke, io sono tuo padre!” Eh, ma sarà o non sarà destino che i due si affrontino? (No, è la Forza).
L'esempio supremo di coincidenza/e (separato da quello di agnizione) lo troviamo nella Commedia di Dante, in cui la qualità e la quantità degli incontri ultraterreni del poeta fiorentino sfidano anche il più delirante approccio statistico (ma la spiegazione c'è, come abbiamo già osservato altrove).
La definizione di coincidenza che troviamo più adatta ai nostri bisogni (sempre tratta dal saggio di Dannenberg) è quella di Alice Johnson: ‘‘qualsiasi concomitanza di circostanze a prima vista considerabili come accidentali, ma che includono un aspetto particolare, tanto da suggerire una relazione di causalità.’’
Nei romanzi (soprattutto quelli che riguardano noi di Simposio100) questa causalità può assumere le sembianze di destino, fato, maledizione, o anche di una persona: molte delle coincidenze che leggiamo nel Conte di Montecristo sono causate dal Conte stesso (che infatti si crede emissario della Provvidenza – che questo sia vero, all'interno della narrazione, o sia una fissazione psicotica del protagonista, non viene chiarito da Dumas).
Un utilissimo saggio (Hilary P. Dannenberg, A Poetics of Coincidence in Narrative Fiction, Poetics Today vol.25 issue 3, Duke University Press 2004) ci informa che di definizioni di coincidenza (in letteratura) ce n'è una per critico. Non c'è da meravigliarsi.
La coincidenza per antonomasia, che si estende dall'antichità classica alla contemporanea industria dello spettacolo, è quella dell'accoppiata agnizione-ricongiungimento dei congiunti.
L'esempio base è quello di Edipo: una serie di coincidenze lo porta, alla fine, alla scoperta della sua vera identità (e di conseguenza alla consapevolezza degli “errori” che ha commesso: uccidere il padre, giacere con la madre), ma nello stesso tempo si può dire, cinicamente, che egli si sia ricongiunto coi suoi congiunti. All'interno della narrazione, le coincidenze sono inevitabili, dettate da un fato cui non si può sfuggire, eppure contemporaneamente determinate da un “peccato” del protagonista.
Una forma più benigna di agnizione è quella che rivela come una trovatella (o trovatello) sia in realtà di sangue reale, da cui lieto fine con nozze (spesso collettive) senza le tragiche conseguenze edipiche (ad esempio nel Racconto d'Inverno di Shakespeare).
Un tipo di disvelamento quasi metaletterario è quello praticato dal protagonista del Conte di Montecristo, che maneggia l'agnizione come una mazza ferrata: “Edmond Dantes!”
Va da sé, tuttavia, che non sempre un'agnizione risulta intimamente legata a una o più coincidenze. Che Pip (in Grandi Speranze di Charles Dickens) e Jerusha (in Papà Gambalunga di Jean Webster) scoprano con sorpresa l'identità dei loro benefattori non implica granché di coincidentale (a prescindere dal massiccio uso delle coincidenze nel romanzo dickensiano).
“Luke, io sono tuo padre!” Eh, ma sarà o non sarà destino che i due si affrontino? (No, è la Forza).
L'esempio supremo di coincidenza/e (separato da quello di agnizione) lo troviamo nella Commedia di Dante, in cui la qualità e la quantità degli incontri ultraterreni del poeta fiorentino sfidano anche il più delirante approccio statistico (ma la spiegazione c'è, come abbiamo già osservato altrove).
La definizione di coincidenza che troviamo più adatta ai nostri bisogni (sempre tratta dal saggio di Dannenberg) è quella di Alice Johnson: ‘‘qualsiasi concomitanza di circostanze a prima vista considerabili come accidentali, ma che includono un aspetto particolare, tanto da suggerire una relazione di causalità.’’
Nei romanzi (soprattutto quelli che riguardano noi di Simposio100) questa causalità può assumere le sembianze di destino, fato, maledizione, o anche di una persona: molte delle coincidenze che leggiamo nel Conte di Montecristo sono causate dal Conte stesso (che infatti si crede emissario della Provvidenza – che questo sia vero, all'interno della narrazione, o sia una fissazione psicotica del protagonista, non viene chiarito da Dumas).
Se troppa simiglianza non m'inganna
Quella di Jean Valjean non è una storia di riscatto o di ascesa sociale: Jean Valjean non è Vidocq, non è un Bel Ami, e nemmeno Jane Eyre. Lo sarebbe se il racconto finisse con la sua nomina a sindaco (sotto l'identità di papà Madeleine), cioè con il suo reintegro come membro beneficamente attivo della società.
Quella di Jean Valjean non è una storia di riscatto o di ascesa sociale: Jean Valjean non è Vidocq, non è un Bel Ami, e nemmeno Jane Eyre. Lo sarebbe se il racconto finisse con la sua nomina a sindaco (sotto l'identità di papà Madeleine), cioè con il suo reintegro come membro beneficamente attivo della società.
Ma il suo percorso lo porterà a elevarsi al di sopra della socialità (partendo da una posizione al di sotto di essa): Jean Valjean, come Montecristo, è un oltreuomo, per quanto di natura del tutto diversa.
Jean Valjean è sì il protagonista del romanzo, ma in un modo tutto particolare. I suoi rapporti con gli altri personaggi hanno la caratteristica di una sorta di cospirazione cosmica, un'attrazione gravitazionale (è lui ad avere la massa maggiore) verso figure come Fantine, Javert, Thénardier, Fauchelevent. In particolare, Valjean tende a imbattersi in Thénardier e Javert con fastidiosa frequenza. Ma non è la coincidenza del feuilleton, non è la Provvidenza, è Dio. È Hugo.
Jean Valjean è sì il protagonista del romanzo, ma in un modo tutto particolare. I suoi rapporti con gli altri personaggi hanno la caratteristica di una sorta di cospirazione cosmica, un'attrazione gravitazionale (è lui ad avere la massa maggiore) verso figure come Fantine, Javert, Thénardier, Fauchelevent. In particolare, Valjean tende a imbattersi in Thénardier e Javert con fastidiosa frequenza. Ma non è la coincidenza del feuilleton, non è la Provvidenza, è Dio. È Hugo.
Voi qui, ser Brunetto?
Nel romanzo mimetico, le coincidenze fanno letteralmente procedere la narrazione (Amleto uccide per sbaglio Polonio, e questo porterà al duello finale con Laerte), ma non hanno tutte la medesima “densità”, nel senso che tutte portano avanti la storia, ma alcune più di altre ne determinano la direzione e la meta.
Ne I Miserabili, come abbiamo già detto, il vettore del personaggio Jean Valjean traccia una traiettoria che lo porta a una sorta di santità laica (laica perché Jean Valjean non diventa martire e non converte nessuno – quando ci prova col giovane Montparnasse, fallisce in pieno), ma non tutti gli eventi del romanzo lo guidano con eguale efficacia.
L'incontro col vescovo Bienvenue è la coincidenza che letteralmente sradica Jean Valjean dalla sua asocialità indurita e fossilizzata dalla (iniqua) prigionia.
Subito dopo, è l'episodio con Petit-Gervais, il bambino a cui ruba una moneta da quaranta soldi, che dà l'abbrivio all'ex forzato. L'incontro col vescovo Bienvenue lo ha decostruito, disarticolato, ma Jean Valjean rimane comunque in bilico, in uno stato di dissociazione. In questo solo punto Hugo si avvicina al concetto radicale di libertà come la tratteggia Dostoevskij.
Jean Valjean decide di diventare un santo, ma nello stesso tempo è la decisione a impossessarsi di lui. Quella moneta luccicante è letteralmente l'occhio di Dio (“Retrocedette di tre passi, poi si fermò, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel punto che il suo piede aveva scavato un istante prima, come se quella cosa che luccicava là nel buio fosse stata un occhio aperto su di lui.”)
Inoltre, il furto dei quaranta soldi svolge un altro importante ruolo direzionale. È uno degli elementi che fa piombare Valjean nella condizione di recidivo e ricercato, condizione che consacra l'ineluttabilità del suo già avviato processo di “santificazione”: l'impresa di papà Madeleine, la salvazione del suo “doppio”, la dedizione totale nei confronti di Cosette, la clemenza nei confronti di Javert, la rinuncia finale alle consolazioni familiari.
Nel romanzo mimetico, le coincidenze fanno letteralmente procedere la narrazione (Amleto uccide per sbaglio Polonio, e questo porterà al duello finale con Laerte), ma non hanno tutte la medesima “densità”, nel senso che tutte portano avanti la storia, ma alcune più di altre ne determinano la direzione e la meta.
Ne I Miserabili, come abbiamo già detto, il vettore del personaggio Jean Valjean traccia una traiettoria che lo porta a una sorta di santità laica (laica perché Jean Valjean non diventa martire e non converte nessuno – quando ci prova col giovane Montparnasse, fallisce in pieno), ma non tutti gli eventi del romanzo lo guidano con eguale efficacia.
L'incontro col vescovo Bienvenue è la coincidenza che letteralmente sradica Jean Valjean dalla sua asocialità indurita e fossilizzata dalla (iniqua) prigionia.
Subito dopo, è l'episodio con Petit-Gervais, il bambino a cui ruba una moneta da quaranta soldi, che dà l'abbrivio all'ex forzato. L'incontro col vescovo Bienvenue lo ha decostruito, disarticolato, ma Jean Valjean rimane comunque in bilico, in uno stato di dissociazione. In questo solo punto Hugo si avvicina al concetto radicale di libertà come la tratteggia Dostoevskij.
Jean Valjean decide di diventare un santo, ma nello stesso tempo è la decisione a impossessarsi di lui. Quella moneta luccicante è letteralmente l'occhio di Dio (“Retrocedette di tre passi, poi si fermò, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel punto che il suo piede aveva scavato un istante prima, come se quella cosa che luccicava là nel buio fosse stata un occhio aperto su di lui.”)
Inoltre, il furto dei quaranta soldi svolge un altro importante ruolo direzionale. È uno degli elementi che fa piombare Valjean nella condizione di recidivo e ricercato, condizione che consacra l'ineluttabilità del suo già avviato processo di “santificazione”: l'impresa di papà Madeleine, la salvazione del suo “doppio”, la dedizione totale nei confronti di Cosette, la clemenza nei confronti di Javert, la rinuncia finale alle consolazioni familiari.
[Per essere precisi, non è chiaro se
Valjean ricada nell'illegalità per il furto ai danni del piccolo
savoiardo, o per essersi sottratto, scomparendo, dagli obblighi degli
ex forzati, o per entrambi i motivi: “Jean Valjean. Era un forzato
che avevo visto vent’anni fa, quand’ero aiutante guardaciurma a
Tolone. Dimesso dal bagno penale, questo Jean Valjean, a quanto pare,
aveva derubato un vescovo, poi aveva commesso una rapina a mano
armata su un piccolo savoiardo. Da otto anni era scomparso, non si sa
come, ed era ricercato.” E a complicare le cose c'è il furto
operato dal falso Valjean, che ne fa ipso facto un recidivo: “Se è
Jean Valjean, esiste recidiva. Scavalcare un muro, spezzare un ramo,
soffiare qualche mela, per un bambino è una birbonata; per un uomo,
è un reato; per un forzato, è un crimine. Violazione di domicilio e
furto, c’è tutto. Non si tratta più di polizia correzionale, si
tratta di corte d’assise. Non si tratta più di qualche giorno di
prigione, si tratta di galera a vita. E poi, c’è l’affare del
piccolo savoiardo, che spero bene ritornerà.”]
In ogni caso, Valjean cercherà a lungo di riparare il torto fatto a Petit-Gervais (“Un’altra cosa che si notava era che ogni volta che passava in città un piccolo savoiardo che vagava per il paese in cerca di camini da spazzare, il signor sindaco lo faceva chiamare, gli faceva dire il suo nome e gli dava del denaro. I piccoli savoiardi si passavano la voce, e ne venivano molti.”), ma, alla fine, la sua figuretta evapora dal racconto, tant'è vero che Valjean, nei suoi discorsi in punto di morte, non ne farà cenno.
Altro elemento “santificante” è l'incontro con Fantine, che offre a Jean Valjean un obbiettivo (Cosette) cui sacrificare nel modo più completo la propria esistenza.
Le meraviglie del poco possibile
Sempre tenendo conto della differenza tra coincidenze “propulsive” e coincidenze “direzionali”, tra queste ultime possiamo contare i ripetuti e (diciamolo) fastidiosi incontri tra Jean Valjean e, rispettivamente, Javert e Thénardier.
Questi due personaggi costituiscono il rovescio e l'antitesi del protagonista.
Jean Valjean è un essere umano, per quanto fragile e incompleto, ha commesso un piccolo furto ma rimane comunque un essere degno di caritas: l'aut aut etico di Javert, che esclude dal consorzio umano chiunque commetta anche il più trascurabile dei misfatti, produce all'opposto la totale disumanizzazione di chiunque si ritrovi nella categoria dei trasgressori, nonché la sua propria, tramite un'autoimposta mancanza di empatia.
Jean Valjean sprofonda nel degrado e nell'abbrutimento che devasta le classi inferiori, ma più che viverli (o addirittura compiacersene), li subisce. E bisogna pur osservare che i “miracoli” che lo spingono verso la resurrezione sociale, devono aver trovato in lui una qualche primeva predisposizione al bene: Thénardier, al contrario, è integralmente predisposto allo sfruttamento e alla violenza. La sua mancanza di empatia non è una scelta etica come quella di Javert, ma è una componente essenziale e “naturale” della sua personalità. Egli è il prodotto della disuguaglianza sociale, ma non ne subisce semplicemente il degrado (come succede a Jean Valjean), anzi, se ne compiace, ci sguazza e cerca di trarne il massimo profitto. È in questo che agisce, nel racconto, come negativo sociale e psicologico di Jean Valjean.
Thénardier è una figura oscillante ed emblematica.
È l'unico personaggio, insieme a Jean Valjean, che sperimenti un mutamento radicale della sua condizione sociale (i rovesci di Marius sono episodi nell'esistenza di un gentiluomo, e l'uscita dalla miseria di Cosette è tutt'uno con il processo di beatificazione di Valjean).
Lo troviamo asceso da vivandiere ad albergatore (attività iniziata coi valori sottratti ai cadaveri di Waterloo), ma già in cattive acque (“In quello stesso anno 1823, Thénardier era indebitato per circa millecinquecento franchi, il che lo rendeva ansioso.”). Hugo, come suo solito, è fluviale ed erratico nella descrizione del personaggio, comunque ne sottolinea esplicitamente la malignità (“In una situazione calma e piatta, Thénardier aveva tutto ciò che ci vuole per fare – non diciamo per essere – ciò che si è convenuto di chiamare un onesto commerciante, un buon borghese. Nel contempo, dandosi certe circostanze, certe scosse venendo a sollevare la sua natura nascosta, aveva tutto ciò che ci voleva per essere uno scellerato. Era un bottegaio in cui c’era un mostro.”), squadernata nel suo comportamento nei confronti della piccola Cosette.
Definire l'oste Thénardier un “piccolo borghese” è probabilmente esagerato, ma che nel corso del romanzo la sua posizione sociale cambi drasticamente è innegabile. Ma, ripetiamo, la miseria in cui è caduto Thénardier è più abiezione che povertà (“Marius era povero, e la sua stanza era misera, ma così come la sua povertà era nobile, la sua soffitta era pulita. Il tugurio [dei Thénardier] in cui aveva ficcato lo sguardo in quel momento era abietto, sporco, fetido, infetto, tenebroso, sordido.”), e appartiene al buio sotterraneo criminale su cui Hugo si diffonde con la consueta facondia.
È il sottoproletariato di cui parla Marx nel 18 Brumaio.
[Incidentalmente, ecco un esempio ancora più nitido della doppia tipologia di coincidenza, reperibile in Delitto e Castigo.
La serie di circostanze fortuite che
permettono a Raskol'nikov di commettere l'omicidio, nonostante le
pecche della sua pianificazione (l'ascia prelevata e riposta senza
testimoni, gli estranei che quasi lo sorprendono in flagrante,
improbabili rei confessi, eccetera), provvedono, come già detto più
sopra, a far proseguire il personaggio nel suo percorso.
Ma guardiamo a un'altra coincidenza: proprio mentre nella mente di Raskol'nikov sta nascendo l'idea di uccidere l'usuraia, l'ex studente sente due persone che parlano esattamente di quello che lui sta pensando, e anzi, è come se dessero voce a un'idea di cui lui non è ancora pienamente consapevole: “Ma perché gli era capitato di sentire proprio in quel momento un discorso simile, simili pensieri, proprio mentre stavano germogliando nella sua mente?... esattamente gli stessi pensieri? Perché proprio in quel momento, mentre lui si portava dietro quell’embrione d’idea dalla casa della vecchia, gli era capitato d’imbattersi in un discorso sulla stessa persona?... La coincidenza gli parve sempre, in seguito, molto strana. Quell’insignificante discorso di trattoria ebbe un’influenza straordinaria su di lui per tutto il corso ulteriore della vicenda: come se effettivamente ci fosse stata, in esso, una specie di predeterminazione, di indicazione...”
Questa coincidenza esemplifica la trasformazione di un abbozzo mentale in un fattuale piano omicida, o meglio, è una specie di piccola narrazione che adombra il lungo processo descritto nelle pagine successive]
Ma guardiamo a un'altra coincidenza: proprio mentre nella mente di Raskol'nikov sta nascendo l'idea di uccidere l'usuraia, l'ex studente sente due persone che parlano esattamente di quello che lui sta pensando, e anzi, è come se dessero voce a un'idea di cui lui non è ancora pienamente consapevole: “Ma perché gli era capitato di sentire proprio in quel momento un discorso simile, simili pensieri, proprio mentre stavano germogliando nella sua mente?... esattamente gli stessi pensieri? Perché proprio in quel momento, mentre lui si portava dietro quell’embrione d’idea dalla casa della vecchia, gli era capitato d’imbattersi in un discorso sulla stessa persona?... La coincidenza gli parve sempre, in seguito, molto strana. Quell’insignificante discorso di trattoria ebbe un’influenza straordinaria su di lui per tutto il corso ulteriore della vicenda: come se effettivamente ci fosse stata, in esso, una specie di predeterminazione, di indicazione...”
Questa coincidenza esemplifica la trasformazione di un abbozzo mentale in un fattuale piano omicida, o meglio, è una specie di piccola narrazione che adombra il lungo processo descritto nelle pagine successive]
Va da sé che questa distinzione tra
categorie di coincidenza è sfumata (tanto per dire, uno dei fortuiti
incontri con Javert porta anche a una delle svolte “santificanti”
di Jean Valjean, quella del poveraccio che rischia di essere
condannato al suo posto, e l'ultima, molesta apparizione di
Thénardier sigilla anche la beatificazione finale di Valjean), ma
comunque ben delineata.
Concludendo: Jean Valjean è un corpo di ragguardevole massa che, una volta messo in moto, attrae corpi minori (Javert, Thénardier, Marius, Fantine, Cosette) da cui viene a sua volta influenzato, ma la cui traiettoria è determinata una volta per tutte.
Ma non bisogna nemmeno credere a una compattezza monolitica della narrazione hughiana, quando, al contrario, è proprio l'eccesso narrativo il suo aspetto più perspicuo, e perché no, più nobile.
Concludendo: Jean Valjean è un corpo di ragguardevole massa che, una volta messo in moto, attrae corpi minori (Javert, Thénardier, Marius, Fantine, Cosette) da cui viene a sua volta influenzato, ma la cui traiettoria è determinata una volta per tutte.
Ma non bisogna nemmeno credere a una compattezza monolitica della narrazione hughiana, quando, al contrario, è proprio l'eccesso narrativo il suo aspetto più perspicuo, e perché no, più nobile.
La grandezza di Hugo, forse, è in ciò che travalica il suo Io debordante, che trascende le tematiche sociali, storiche, economiche o psicologiche, e irrompe sulla scena come inarginabile pulsione di vita, nelle danzanti canzonature che Gavroche rivolge ai proiettili che lo uccideranno, nel tono quasi trascurato con cui Eponine pronuncia il suo amore per Marius, nelle amorevoli e lacrimose maledizioni che il vecchio Gillenormand riversa sul nipote creduto morto, e perfino nella dimessa prosaicità delle ultime parole di Jean Valjean: l'esistenza umana può generare una speranza in grado di riscattare l'interminabile stillicidio della propria infamia.
Cosa sia la bellezza, si sa, non si è
mai riusciti a dirlo con (seppur vacillante) sicurezza, ma è
tuttavia certo che la sua componente di epifania, rivelazione,
risiede nella meraviglia che suscitano le “coincidenze”
narrative: una costellazione di eventi che evocano un'intenzionalità
enigmatica, “uncanny” in quanto elusiva. Enigmatica, sì, perché
se il ricongiungimento di Ipsipile coi due figli fosse stato
pianificato da un agente ben identificabile, detta coincidenza
cesserebbe di essere tale. Tale è il miracolo di un volto amato,
tale è il corpo delle nostre figlie e figli, configurazioni che
esondano dal cuore del mondo, configurazioni che sentiamo
impossibili, e che tuttavia, contro ogni probabilità, vivono davanti
ai nostri occhi.
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